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Pietro Maso libero dopo 22 anni in cella

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Con tre complici massacrò i genitori in casa il 17 aprile 1991. Era stato condannato a 30 anni. Il movente: l'eredità

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 Il «mostro», come lo definirono all'epoca i giornali, è libero. Ha scontato la sua pena. Ha pagato il conto con la giustizia con 22 anni dietro le sbarre per aver massacrato i genitori. Ora il quarantunenne Pietro Maso può rifarsi una vita. Ieri ha lasciato il penitenziario di Opera. L'agghiacciante duplice omicidio, che Maso racconta in un libro proprio oggi nelle librerie con l'emblematico titolo: "Io ero il male", colpì per la ferocia e la squallida «materialità» del movente. L'obiettivo erano i soldi, l'eredità, i risparmi che il padre Antonio, ucciso a 56 anni, e la madre Mariarosa Tessari, di 48, avevano messo da parte con i sacrifici di una vita. Tutto finì in orgia di violenza e di sangue e con il puerile tentativo di depistare le indagini facendo pensare a una rapina degenerata in assassinio. Ma gli investigatori non ci misero molto a capire che quel ragazzo, così tranquillo, non diceva la verità. E per Pietro si aprirono le porte del carcere. Le stesse che ieri si sono dischiuse per lasciarlo uscire. Per i fatti del 17 aprile 1991 Maso venne condannato a 30 anni di reclusione. Tutto avvenne nella sua casa di Montecchio di Crosara, provincia di Verona. Il piano era stato studiato da tempo. Maso e i suoi amici-complici ci avevano provato già tre volte, invano. A colpire ancora di più l'opinione pubblica fu il fatto che il giovane non aveva problemi psicologici e neanche un rapporto particolarmente tormentato con i genitori. Quella notte di orrore e morte, invece, li massacrò con l'aiuto di Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza (entrambi diciottenni), e Damiano Burato, all'epoca minorenne. La decisione viene presa quando Giorgio, che aveva ottenuto un prestito in banca di 24 milioni per comprarsi un'auto, decide di sperperare quel gruzzoletto insieme a Pietro, per fare "la bella vita". Per pagare il suo debito all'amico, Pietro stacca un assegno del conto intestato alla madre, imitandone la firma e consegnando 25 milioni a Giorgio. Ma a quel punto bisogna sbrigarsi. Rosa deve essere uccisa prima che si accorga dell'ammanco. Così quella sera Maso, Carbognin, Cavazza e Burato si ritrovano in un bar di Montecchia. Un loro amico, Michele, viene informato del progetto, i quattro gli propongono di partecipare ma lui pensa a uno scherzo e li riaccompagna a casa. Invece non è uno scherzo. Poco dopo le 23, quando i genitori di Pietro tornano a casa ed entrano in garage, Antonio si accorge che manca la corrente. Allora sale le scale per raggiungere il contatore al primo piano. Arrivato in cucina, viene aggredito dal figlio, armato di un tubo di ferro. Damiano lo colpisce a sua volta con una pentola. Poi arriva Mariarosa e viene bloccata da Paolo e Giorgio, che impugnano un bloccasterzo e un'altra pentola. La donna non muore sul colpo. È il figlio a finirla, soffocandola con del cotone infilato in gola e un sacchetto di nylon sulla testa. Nel frattempo Paolo si accanisce contro Antonio, premendogli il piede sul collo. Quindi Pietro e Giorgio se ne vanno in discoteca a ballare, per crearsi un alibi, racconteranno. Più tardi Pietro rientra e lancia l'allarme. Ma l'atteggiamento del giovane insospettisce gli investigatori. E poi c'è quell'assegno: una delle sorelle, Laura, si accorge dei 25 milioni che mancano dal conto della madre e trova la firma falsa di Rosa Tessari e la scritta della cifra sulla rubrica telefonica di casa. Pietro viene messo sotto torchio e, dopo due giorni, confessa. I suoi tre amici lo seguono a ruota. Vengono arrestati per omicidio volontario, che poi diventa duplice omicidio volontario premeditato pluriaggravato. La sentenza è emessa nel '92 e confermata dalla Cassazione: a Pietro 30 anni e 2 mesi, 26 a Cavazza e Carbognin. Burato, non ancora maggiorenne, prende 13 anni. La perizia psichiatrica sancì la sanità mentale di tutti gli imputati. Eppure alcuni di loro avevano già partecipato ad altri macabri tentativi: un giorno, Mariarosa trovò due bombole di gas in cantina e dei vestiti ammucchiati nel camino. Pietro candidamente disse che servivano per alimentare delle stufe in vista di una festa. Il colpo andò a vuoto perché le manopole delle bombole erano rimaste chiuse. Altri due tentativi fallirono perché il sicario prescelto, Carbognin, all'ultimo momento non se la sentì. Rimediò Pietro qualche tempo dopo. E, questa volta, non ci furono esitazioni.

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