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Dossieraggio, parla il pg Rivello: "Patto perverso con la stampa e rischio manine estere"

Edoardo Sirignano
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«Qualunque servitore infedele dello Stato per anni ha potuto utilizzare dati sensibili a proprio piacimento. Ecco perché il caso dossieraggio è preoccupante. Con la scusa di un’indagine, qualunque interesse, anche estero, avrebbe potuto condizionare la vita del Paese». A dirlo Pierpaolo Rivello, Procuratore Generale Militare Emerito presso la Suprema Corte di Cassazione. Giusto creare fascicoli su personaggi ritenuti scomodi? «Il controllo sulle operazioni economiche sospette viene effettuato su tutti i cittadini e quindi anche su soggetti politicamente esposti. Il nostro Paese è all’avanguardia nella lotta alla corruzione».

Dove sorge, allora, il problema?
«È nelle banche dati e nella mole di documenti che vengono giornalmente trasmessi alla Procura Nazionale Antimafia e ad altri enti preposti. Una criticità, ad esempio, è stata evidenziata in questi giorni dal Procuratore Nazionale Antimafia, il quale ha lamentato, che antecedentemente al suo arrivo vi erano numerose lacune nelle procedure di sicurezza atte a scongiurare possibili cyberattacchi. Altro problema, poi, è rappresentato dal pericolo di accordi perversi tra il personale investigativo e taluni organi di stampa che ricevono in anteprima notizie».

 

Ciò cosa comporta?
«L’utilizzo politico delle informazioni. Quello che emerge dall’ultima inchiesta è come l’attenzione fosse focalizzata sugli appartenenti a determinati schieramenti politici piuttosto che ad altri. Dopo quanto riferito dal ministro Crosetto, che ha avuto il coraggio ed il merito di esporre pubblicamente il problema, non dovremmo solo dire che abbiamo soggetti deviati, come Striano ed eventuali suoi complici».

Il finanziere, dunque, non ha agito in autonomia?
«Il normale buon senso induce a escludere che un singolo finanziere, tra l’altro di rango non particolarmente elevato, possa aver elaborato un piano così complesso. Non voglio sostenere tesi complottiste, ma che abbia avuto dei complici è scontato».

Come difendere, intanto, i nostri dati?
«Bisogna innanzitutto controllare le possibilità di accesso alle banche dati. Dovrebbe, inoltre, sussistere un’assoluta tracciabilità degli accessi effettuati. Non basta che un soggetto appartenga a un determinato nucleo perché possa entrare, a suo piacimento, in una sorta di giardino proibito».

Quale la strada per preservare, dunque, il nostro avvenire?
«Non solo l’accesso a queste informazioni dovrebbe essere riservato a pochissimi soggetti, ma soprattutto non dovrebbe essere appreso, né tanto meno divulgato, ciò che non è strettamente necessario per le indagini».

Quale, intanto, il disastro a cui siamo stati esposti? Cantone, oggi, ha parlato di 10mila accessi e 33mila file scaricati...
«I numeri non devono impressionarci. Le strutture investigative operano su larga scala. L’Italia, come qualunque società avanzata, ha immense banche dati. Non bisogna pensare di ridurle o di renderle inaccessibili. Il problema, piuttosto, è fare in modo che chi entri in questa ideale cassaforte informatica svolga solo quanto gli venga chiesto in un tempo stabilito e poi esca, non che si metta a girare all’interno dei data base “blindati” per trovare notizie. Questo è stato un errore che pagheremo a caro prezzo».

Potrebbero esserci state intromissioni anche dall’estero?
«Interessi stranieri, grazie a determinate notizie, hanno potuto incidere sulla vita politica o aver avuto effetti dirompenti sulla nostra economia».

 

In queste ore, intanto, il mirino è rivolto soprattutto verso l’Antimafia. Giusto demonizzarla?
«Il male non è la Procura Nazionale Antimafia. L’errore commesso da parte loro è stato uno solo: le cautele volte a tutelare i dati sono state piuttosto blande. È un difetto, comunque, di apparato. Gli stessi giudici sono stati delle vittime».

Dopo il caso dossieraggio, a suo parere, si è cominciato a fare qualcosa?
«Non si è fatto purtroppo nulla. Questa vicenda dovrebbe rappresentare un monito per il futuro».

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