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I flop dei pm di Siena nelle indagini su David Rossi

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Pubblichiamo in anteprima un capitolo della versione aggiornata dell'ultimo libro di Matteo Renzi, «Il Mostro», edito da Piemme e in libreria da martedì 22 novembre

Matteo Renzi
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La commissione parlamentare sulla morte di Rossi ha permesso di chiarire molti aspetti che nessuno avrebbe mai scoperto senza la tenacia commovente della famiglia di Rossi, a cominciare dalla vedova Antonella, dalla figlia Carolina, dal fratello Ranieri. E senza lo straordinario lavoro di inchiesta di pochi giornalisti, dalla redazione de Le Iene al direttore de «Il Tempo», Davide Vecchi. Li cito volentieri perché sia con le Iene sia con Vecchi ho avuto numerosi motivi di attrito in passato. E probabilmente continuerò ad averne in futuro. Ma ciò non toglie nulla al fatto che la loro indagine è straordinaria. Non torno di nuovo sulle vicende legate all’evento drammatico della caduta di Rossi dalla finestra. Non mi unisco al coro di chi pretende di conoscere la verità. Mi fermo un passo prima ed elenco le stranezze del comportamento di Nastasi e dei suoi citando soltanto una pagina delle centinaia della relazione finale della commissione d’inchiesta. Commissione d’inchiesta che andrebbe di nuovo istituita per terminare il lavoro iniziato e interrotto dalla caduta del governo e dalla fine anticipata della legislatura.

Mi limito a citare testualmente: «Nei capitoli dedicati alle indagini svolte all’epoca dei fatti si è fatto cenno alle altre lacune emerse nella conduzione e nell’esecuzione delle indagini. Oltre alle contraddizioni di natura logico-ricostruttiva, cui sopra si è fatto cenno - relative al mancato accertamento del percorso attraverso il quale la notizia della morte pervenne all’autorità giudiziaria e delle ragioni di natura economica che, pur essendo alla base dell’intervento ad adiuvandum compiuto dai magistrati, non hanno comportato la successiva verifica dello spunto investigativo che li aveva mossi - meritano menzione altri episodi di ostentata certezza dell’assoluta correttezza e della piena opportunità di attività di indagine svolte, che non hanno trovato successivo conforto probatorio. Ne costituiscono esempi la ferma dichiarazione di essersi sincerati dell’avvenuta realizzazione di un filmato prima di fare accesso all’ufficio del Rossi, smentita con certezza dall’appartenente alla Polizia di Stato che realizzò il video con il suo telefonino (il quale ha ricordato che la richiesta circa l’esistenza del filmato gli fu fatta solo molto tempo dopo, a tarda notte) o come la ripetuta convinzione che una volta entrati nell’ufficio non fu determinata alterazione dello stato dei luoghi prima dell’arrivo della Polizia scientifica (ipotesi contraddetta dalle immagini video e dalle foto acquisite agli atti). Analoghe considerazioni valgono circa l’affermazione secondo la quale non si sarebbe recato nei pressi del vicolo ove giaceva il corpo (comportamento peraltro non frequente nei casi in cui un magistrato si reca sul posto proprio a causa del rinvenimento di un cadavere che per prima cosa è opportuno andare subito a visionare) prima sostenuto con fermezza ma poi escluso (solo perché si è dovuto prendere atto del contenuto di una foto realizzata per un quotidiano, nella specie La Nazione di Siena). Lo stesso dicasi in merito all’attribuzione al medico-legale della mancata analisi delle tracce di sangue presenti sui fazzolettini quando, invece, il consulente non aveva contezza dell’esistenza di tali preziosi reperti prima di eseguire l’esame autoptico e quando essi vennero distrutti su decisione del pubblico ministero (presa senza coinvolgere il giudice delle indagini preliminari), nonostante la pendenza della richiesta di archiviazione e l’opposizione sollecitasse accertamenti tecnici su profili ematici impressi su tali fazzolettini, ovvero l’erronea esclusione dell’esistenza di telecamere interne».

Troppe cose non tornano in questa vicenda, troppe. Le ferite non compatibili con una caduta suicida, secondo i nuovi autorevoli consulenti. La presenza di una chiavetta contenente il video di due persone che escono dal lavoro alle 20.01 ripresi da una diversa telecamera di videosorveglianza, chiavetta che viene inspiegabilmente occultata. Le lettere del manager alla moglie con espressioni mai utilizzate prima. Troppe cose sono avvolte da dubbi e da misteri. Ma c’è una certezza: il modo con il quale gli inquirenti senesi, tra cui Nastasi, hanno fatto le indagini è tecnicamente scandaloso. A questo va sommata l’arroganza dello stesso Nastasi, ben rappresentata dalle frasi del pm quando viene esaminato dai parlamentari membri della commissione d’inchiesta. Non solo lo scambio con il leghista Borghi già raccontato nel libro a pagina 57, ma anche le sibilline minacce al parlamentare grillino Migliorino che si domanda perché viva tutto come un attacco personale: «Lei alterato non mi ha visto e le auguro di non vedermi mai alterato». E ancora quando Migliorino domanda: «Modificare lo stato di qualcosa che è sotto sequestro è un reato oppure no?». E lui risponde: «Sì, onorevole, lo è». E Migliorino di rimando: «Perché lei non ha proceduto contro chi aveva fatto questa cosa?». E lui risponde: «Che vuole che le dica?».

E ancora la frase: «Io da pubblico ministero, grazie a Dio, per procedere per un’ipotesi di omicidio devo avere indizi. Non mi posso basare sul sospetto, perché il nostro sistema penale e costituzionale è informato ai principi di legalità, materialità, offensività e colpevolezza. Se noi non abbiamo tutto questo, noi non possiamo fare nulla. Se non ho indizio di un reato, io non posso iscrivere un procedimento per omicidio e fare le indagini, anzi, sarebbe singolare il contrario. Io non posso procedere perché ho il sospetto. Con il sospetto io non posso iscrivere un fascicolo, non posso fare niente. Il diritto penale del sospetto è un diritto penale proprio dei regimi totalitari».

Queste frasi di Nastasi con le quali si giustifica per ciò che non ha fatto nell’indagine David Rossi, sono frasi che evidentemente dimentica quando indaga su Carrai. Non c’era nulla, nulla, nulla. Solo il diritto penale del sospetto. Quello che sta alla base anche della inchiesta Open. E nel caso di Nastasi l’elenco potrebbe allargarsi non solo alla vicenda Carrai ma anche a ciò che è accaduto nel luglio 2022 quando gli ex vertici Mps vengono assolti dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza anche grazie a un particolare scovato dall’avvocato Tullio Padovani che spiega come Nastasi abbia scelto «di non depositare durante il giudizio di primo grado quanto acquisito dalla Consob», vale a dire la documentazione necessaria a provare che tutti fossero a conoscenza del mandate agreement e dunque che l’accusa non stava in piedi. La scelta di Nastasi «non ha consentito al giudice di prima di apprendere che i documenti erano stati trasmessi a Banca d’Italia durante l’ispezione e che Consob e la società di revisione Price Waterhouse avevano ritenuto equipollente i Deed al mandate». Grazie a questa carta - nascosta in primo grado - si dimostra che il fatto non sussiste e dopo dieci anni tutti finiscono assolti. Tornano alla mente le parole profetiche di Nastasi il giorno 7 aprile 2022 quando intervenendo in commissione parlamentare d’inchiesta dice: «Io non capisco molto di banche». Verrebbe da aggiungere: ce ne siamo accorti.

In un Paese dove conta la responsabilità i tre pm del caso David Rossi sarebbero chiamati a fare altro nella vita. Certo non farebbero più indagini penali. Perché quando davanti a un caso del genere si compiono così tanti errori grossolani far finta di nulla è un’ingiustizia verso la famiglia della vittima ma anche verso la credibilità delle istituzioni. Chi può fidarsi di un pm così? Io no.
 

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