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Allarme del Censis: "Quattro milioni di lavoratori sono a rischio povertà"

Luigi Frasca
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Sono 4 milioni i lavoratori del settore privato che, in Italia, guadagnano meno di 1.000 euro al mese, in 412 mila assunti a tempo indeterminato e full time. Quasi 5 milioni sono dipendenti a termine, part-time (anche involontari) e collaboratori: una condizione di precarietà che tocca il 21,7% dei 22.500.000 di occupati totali.

È il bilancio del Focus Censis-Confcooperative «Un paese da ricucire» che pone una delle questioni più urgenti con cui il futuro Governo dovrà fare i conti: il lavoro povero e precario. Già a luglio l'Inps aveva lanciato l'allarme, parlando di 3,3 milioni di dipendenti sotto la soglia dei 9 euro lordi l'ora, quel minimo fissato dall'Unione europea. C'è poi il capitolo «nero», con 3,2 milioni di irregolari, di cui 2,5 milioni nei servizi, 500 mila i «falsi autonomi» e 50 mila i lavoratori delle piattaforme. «Percepire un reddito da lavoro dipendente non è più sufficiente a mettersi al riparo dal rischio di cadere in povertà e da condizioni di disagio dalle quali può diventare difficile affrancarsi», commenta Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative. Sul podio delle categorie più colpite da precarietà e povertà, i giovani (38,7% tra i 15 ed i 34 anni), chi vive nel Mezzogiorno (28,1%) e chi ha un basso livello di istruzione (il 24,9% ha la licenza media).

Un dato, questo, che tocca trasversalmente il tessuto sociale del Paese e che, secondo il presidente del Cnel, Tiziano Treu, non può essere affrontato con la sola arma del salario minimo. Il cuore del problema, ha spiegato infatti a LaPresse, è nel «part time involontario e nei contratti corti, tra le principali cause del lavoro povero, anche a fronte di un salario orario decente: un lavoratore può guadagnare anche 10 euro l'ora, ma se lavora 50 ore al mese è chiaro che sarà un lavoratore povero. Anche i contratti corti sono un problema, soprattutto se durano una settimana. Sono questi gli elementi del disastro, che portano ad una produttività scarsa e quindi alla povertà. E a fronte di questi problemi strutturali, il salario minimo - afferma quindi Treu - non può bastare». Alcuni settori sono poi particolarmente problematici: sfuggono al flusso Uniemens del Cnel rendendo difficile calcolare il numero di addetti impiegati ed è più difficile monitorare l'applicazione dei contratti. «Nelle pulizie ti danno un salario da fame, e sono bassi anche quelli di guardiania, logistica, pulizie, turismo. In questi settori con bassissima produttività, ci sono imprese che giocano al ribasso, e quindi salari da fame. Lì serve un salario minimo», osserva Treu. E aggiunge: «Io spero che accada anche in Italia e credo che il futuro governo lo farà. Se non un salario minimo per legge, almeno percorrere la via contrattuale su cui tutti, un mese fa, sembravano essere d'accordo». Il futuro governo sarà a trazione Fdi e più volte la leader Giorgia Meloni ha affermato che il salario minimo non sarebbe risolutivo per stimolare il mercato del lavoro. Ma «Meloni - ricorda Treu - ha un coté sociale che non può abbandonare, anche perché dovrà fare cose più difficili. Faranno qualcosa, vedremo cosa».

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