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Prandini della Coldiretti: "Peste suina, aviaria e caro energia: agroalimentare in crisi"

Valeria Di Corrado
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Tra peste suina africana, influenza aviaria, coronavirus, aumento del costo dell’energia e dei mangimi, il comparto agroalimentare italiano sembra colpito dalla «tempesta perfetta». Alcuni scenari erano prevedibili e quindi, con i giusti interventi preventivi, si sarebbe potuto - forse - evitare il peggio. Altri scenari erano inimmaginabili, ma non per questo mancano le soluzioni; ciò che manca, spesso, è la volontà di metterle in atto. 
Il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, è ormai costantemente al «fronte», su più fronti, per cercare di difendere produzioni e lavorazioni che ci invidiano da tutto il mondo. 


Se la pandemia di Covid-19 non si poteva prevedere, ci si aspettava invece l’ingresso del virus della peste suina africana in Italia, considerato che già dal 2017 è presente in Europa. Come mai non si è intervenuti per tempo?
«Più di due anni fa avevamo fatto una prima manifestazione nazionale per denunciare il prolificare di alcune specie selvatiche. In particolare i cinghiali, che sono il principale vettore di contagio della peste suina africana, sono ormai fuori controllo nel nostro Paese: da nord a sud abbiamo stimato che ci siano circa 2,3 milioni di esemplari. Tutti i partiti ci avevano assicurato che avrebbero modificato la legge sulla caccia (n.157 del 1992), ma ad oggi nulla è cambiato. La politica non capisce che si tratta di un’emergenza non più rinviabile».
La legge già dà alle Regioni la possibilità di attuare dei piani di contenimento delle specie infestanti, che prevedano anche l’abbattimento nel caso in cui non si raggiungano gli obiettivi con metodi incruenti. In cosa andrebbe modificata?
«Chiediamo di prolungare a tutto l’anno il periodo dell’attività venatoria (ora è limitato a 2-3 mesi a cavallo tra autunno e inverno), dando la possibilità anche ai proprietari dei fondi agricoli di auto tutelarsi, ovviamente previa concessione di una licenza di caccia. I cinghiali distruggono due terzi del raccolto. Oltre ai danni alle imprese, che non vengono rimborsati in modo adeguato, l’invasione della fauna selvatica diventa inoltre uno dei principali motivi che spingono i giovani agricoltori ad abbandonare terre e attività. Così non solo diminuisce la capacità produttiva del Paese, ma ci si espone ancora di più agli smottamenti legati al cambiamento climatico».

 


Dal 6 gennaio a oggi sono 8 i cinghiali trovati positivi alla peste suina africana tra le province di Alessandria, Genova e Savona. L’area «infetta» è stata circoscritta. A quanto ammontano i danni al comparto?
«Per fortuna si tratta di una zona che conta poche aziende suinicole. Il paradosso è che, pur non avendo un solo maiale contagiato, abbiamo dovuto chiudere gli allevamenti lì presenti. Addirittura alcuni Stati, come Giappone, Cina, Taiwan, Svizzera, Kuwait e Cuba, hanno bloccato l’importazione dei nostri salumi, da qualsiasi zona provengano. Al momento abbiamo stimato un danno di 20-25 milioni di euro, su un totale di 1,7 miliardi di ricavi dall’export (il 60% del quale verso Paesi membri dell’Ue). Nonostante la Cina sia una mercato in crescita, non possiamo infatti esportare lì carne con l’osso. La situazione per ora è gestibile, ma la preoccupazione è che i cinghiali, muovendosi liberamente dalle Alpi agli Appennini, possano portare il virus in altre zone in cui ci sono aziende fiore all’occhiello dell’export italiano, come il consorzio del prosciutto di Parma. Degli 8,5 suini allevati in Italia, 4,4 milioni sono in Lombardia, 1,3 milioni in Piemonte e 1,1 milioni in Emilia-Romagna».
C’è anche l’influenza aviaria che da metà ottobre, con 306 focolai, ha portato all’abbattimento di circa 14 milioni di polli e tacchini negli allevamenti di Veneto e Lombardia.
«Per la filiera avicola il danno complessivo ammonta a 500 milioni di euro, di cui solo una cinquantina saranno risarciti dallo Stato e dell’Ue. In questo caso il virus proviene dagli uccelli migratori. Le Regioni devono quindi evitare di istituire parchi venatori e oasi vicino ad allevamenti preesistenti. Inoltre bisognerebbe sospendere i mutui e pagamenti bancari alle aziende che hanno investito in costi di gestione per la biosicurezza e il benessere animale».

 


Oltre a questi due virus che colpiscono gli animali, si sommano i danni indiretti causati dalla pandemia di Covid-19?
«I loockdown, prima, e le restrizioni, ora, hanno comportato difficoltà per alcune filiere legate alla ristorazione. Il 30% della nostra produzione agricola, infatti, confluisce nel comparto "horeca" (acronimo di hotellerie, restaurant e cafè). La pandemia ha inoltre accentuato accaparramenti, speculazioni e incertezza a livello internazionale. Come Coldiretti prevediamo che la Cina entro la prima metà dell’annata agraria 2022 avrà accaparrato il 69% delle riserve mondiali di mais, il 60% del riso e il 51% di grano, con la conseguenza di forti rincari e carestie in diversi continenti. Per questo occorre investire sull'agricoltura nazionale». 
Ma l'aumento esplosivo dei costi di energia e mangimi sta facendo schizzare i prezzi anche dei prodotti di consumo made in Italy.
«L’agricoltura paga enormemente l’incremento del costo energetico: rispetto al 2019 c’è stato un aumento medio di 36 miliardi di euro per tutte le attività produttive. Ad esempio, nel comporto florovivaistico è triplicato il costo per il riscaldamento delle serre. Così si crea un divario tra le imprese dei vari Paesi membri, che si ripercuote sulle esportazioni: l’Italia è tra quelli con il costo dell’energia più alto. Scontiamo anche il fatto di avere un sistema della logistica poco organizzato, tra portualità e gestione dei retro-porti. Abbiamo un gap competitivo con la Spagna di 11-12 miliardi all’anno. Nel settore lattiero-caseario, paghiamo per la logistica 3,4 centesimi in più rispetto all’Olanda, che si tramuta nel 10% in meno di quello che viene riconosciuto. Dobbiamo tornare a investire sulle infrastrutture».
Siete favorevoli alla transizione ecologica?
«Sì, ma va accompagnata da soluzioni alternative, altrimenti comporta solo un aumento esponenziale dei costi. Rispetto al 2020, ad esempio, i concimi ci costeranno il 140% in più e i prodotti fitosanitari il 70% in più. Stiamo chiedendo da un anno al Governo di approvare una norma che implementi l’uso di prodotti come il digestato, che potrebbe supplire all’uso di fertilizzanti chimici.
Quest’anno, grazie al Recovery Plan, abbiamo più risorse per realizzare impianti alimentati a biogas, che producono energia elettrica e termica a minor costo a partire da materiali organici di natura vegetale; ma lo Stato mette dei paletti. Mercoledì incontrerò il ministro alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani, per ottenere uno snellimento dei passaggi burocratici e lo sblocco di 40 domande, escluse dalla graduatoria del Gse, per la realizzazione di impianti a biogas».

 

 

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