informazione e inchieste

Ora l'Europa mette il bavaglio ai media. Informazione e inchieste, l'ultimo regalo di Bruxelles

Carlo Solimene

Addio alle conferenze stampa della polizia giudiziaria in cui vengono comunicati arresti o sequestri. A meno che il procuratore capo non ritenga, con un atto motivato, di autorizzare la trasmissione di notizie ai media ma solo in presenza di «specifiche ragioni di pubblico interesse».

È l’effetto più immediato del decreto legislativo 188 del 2021 licenziato dal ministro della Giustizia Marta Cartabia a inizio novembre e in vigore tra 4 giorni, il 14 dicembre. Una norma controversa che ha spaccato il mondo della politica e della magistratura, salvo poi «salvarsi» grazie a un compromesso nella maggioranza di governo che, tuttavia, non ne ha eliminato gli aspetti più controversi nel sempre difficile equilibrio tra presunzione di innocenza e diritto dell’opinione pubblica a essere informata.

 

Il provvedimento ha avuto un parto piuttosto travagliato. Tutto nasce, infatti, dalla direttiva 343 del 2016 dell’Unione europea volta a rafforzare «alcuni aspetti della presunzione di innocenza». Direttiva che l’Italia avrebbe dovuto recepire nel proprio ordinamento entro l’aprile del 2018. All’epoca, però, il governo Gentiloni ritenne di non dover intervenire poiché - si giustificò - la presunzione di innocenza è di fatto già ampiamente garantita dalla nostra legislazione, in particolare dall’articolo 27 della Costituzione, che recita: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».

 

La questione, però, è tornata d’attualità a marzo di quest’anno, quando è stato approvato un ordine del giorno del deputato di Azione! Enrico Costa che vincolava il governo italiano a «importare» la direttiva Ue. A quel punto si è aperto lo scontro in maggioranza, con lo stesso Costa e il centrodestra che volevano allargarne lo spettro - fino a vietare di rendere noti i nomi dei pm che si occupavano dell’inchiesta - e Pd e 5 stelle che invece chiedevano norme più blande. Alla fine è arrivata la mediazione della ministra Cartabia, che ha prodotto il decreto legislativo in questione.

I punti dirimenti sono diversi. Innanzitutto c’è il «divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata» con sentenza definitiva. In caso di violazione di questo divieto, l’interessato ha diritto a un risarcimento del danno e a chiedere alla pubblica autorità una rettifica.

 

Poi c’è l’aspetto relativo all’informazione. Si legge che le notizie sulle inchieste in corso possono essere comunicate solo «tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza dei fatti, tramite conferenze stampa». Queste possono essere autorizzate dal procuratore capo solo se giustificate da «specifiche ragioni di pubblico interesse». Ancora più nello specifico, solo quando sono necessarie «per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico». La scelta, in ogni caso, sarà affidata alla sensibilità del procuratore capo.

Sul testo era stato chiesto un parere al Csm che lo scorso 9 novembre l’ha approvato a larga maggioranza con due soli voti contrari: quelli di Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Quest’ultimo, in particolare, aveva denunciato proprio il rischio di bavaglio alla stampa. «Ci avviamo a una situazione nella quale fino alla sentenza definitiva i processi in tv li possono fare solo gli imputati e i parenti degli imputati mentre nessuna notizia potrà essere data dai procuratori e dalle forze dell’ordine» aveva denunciato l’ex pm della trattativa Stato mafia.

La stessa relatrice del parere, Loredana Micciché, pur lodando complessivamente il decreto ha segnalato «il rischio che il procedimento di correzione previsto per eliminare i riferimenti alla colpevolezza aggravi eccessivamente gli uffici giudiziari». A furia di rettifiche, insomma, si rischia di togliere tempo alle indagini.

Altri magistrati celebri hanno criticato il decreto legislativo, dall’ex presidente Anac Raffaele Cantone («Norme così rigorose potranno limitare il diritto dei giornalisti ad accedere alle notizie») al presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che ha denunciato come «entro una cornice di apprezzabile rafforzamento di alcuni presidi di garanzia, sono state compiute scelte discutibili». Perplessità che però non hanno fermato la macchina legislativa. Dal 14 dicembre il provvedimento sarà già in vigore.
E qualcuno si è già mosso per applicarlo in anticipo. Ad esempio la procura di Civitavecchia, che ha vietato le comunicazione sull’esito delle indagini sull’omicidio del professore Dario Angeletti a Tarquinia. Notizia che ha scosso la comunità viterbese e i cui dettagli, nonostante il «riserbo» imposto agli inquirenti, sono comunque filtrati (basti leggere il pezzo in basso nella pagina). Utilizzando i classici canali «informali». L’ennesima dimostrazione di quanto l’ansia di legiferare porti, talvolta, a effetti paradossali.