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Afghanistan, nessuna accoglienza per i nostri soldati: la vergogna nazionale

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Alessandro Giuli
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Nel sacrosanto tripudio di questi giorni, ingenerato dall'innegabile qualità dello sport italiano, c'è una piccola vergogna nazionale di cui non si parlerà mai abbastanza: i nostri soldati sono appena tornati dall'Afghanistan dopo una missione ventennale costata 55 morti e 753 feriti, fra cui anche numerosi civili, ma nessuna autorità pubblica si è degnata di accoglierli all'arrivo. Uno sgarbo umano e morale, prima ancora che una sgrammaticatura politica, di fronte alla muta generosità dimostrata dalle nostre Forze armate ben riassunta dalle parole del comandante della Brigata Folgore, Beniamino Vergori, ultimo militare a salire sull'aereo che lasciava la base di Herat: «Abbiamo fatto la nostra parte».

Loro si, mentre non si può dire lo stesso delle nostre istituzioni. Non che ci aspettassimo chissà quale solennità, anche perché il contegno discreto è un costante tratto della nostra tradizione marziale. E tuttavia, se si esclude la presenza del ministro della Difesa Lorenzo Guerini per una veloce cerimonia di ammainabandiera in Afghanistan, stiamo parlando d'una rumorosa mancanza di decoro agli occhi di chiunque non abbia abdicato all'orgoglio per la qualità altissima dei nostri servitori dello Stato.

Chiamatelo pure patriottismo, e si potrebbe anche solo evocare il senso d'appartenenza e l'amore per il Genio di una Nazione che ha cercato di portare pace e civiltà senza temere i rischi della guerra. Dopotutto, nel caso di Silvia Romano, liberata nel 2020 dopo un sequestro jihadista in Kenya, le più alte cariche di governo non mancarono di mostrarsi all'arrivo della volontaria sul suolo italiano.

C'è dell'altro. Ben poco rilievo - sia dal punto di vista politico sia dal punto d'osservazione giornalistico era stato concesso un mese fa al grave sgarbo ricevuto da parte degli Emirati Arabi Uniti che hanno negato il passaggio nel proprio spazio aereo al C-130 dell'Aeronautica militare sul quale giornalisti e militari viaggiavano in direzione del Camp Arena di Herat per solennizzare il congedo dei soldati italiani alla presenza del ministro Guerini. Di là dalla reazione protocollare della Farnesina, che ha convocato l'ambasciatore di Abu Dhabi per esprimere «sorpresa» e «forte disappunto» causati da «un gesto inatteso che si fa fatica a comprendere», nessuna figura apicale della nomenclatura italiana ha ritenuto che a quell'offesa dovesse corrispondere un sovrappiù di attenzione verso i nostri militari in procinto di rientrare.

La verità è che non esiste alcuna cultura pacifista - e la nostra lo è anche nel dettato costituzionale - tale da consentire certe trascuratezze. Il rispetto per la divisa e la bandiera tricolore, il ricordo di chi ha donato la propria vita e di chi la mette ogni giorno in pericolo per onorare la bandiera e la parola data dall'Italia al mondo, esigerebbero pubbliche scuse del governo nei confronti delle Forze armate. Ma, appunto, prima si dovrebbe ammettere la sconsiderata leggerezza con la quale le istituzioni hanno maneggiato una vicenda dall'alto significato anche simbolico.

Da ultimo, come scrivemmo su questo giornale durante la prima ondata pandemica nel 2020, lo Stato italiano non è sovrapponibile a quello in vista nei Palazzi del potere; c'è uno Stato profondo - composto da servitori in divisa e in abiti civili - che protegge ogni giorno la nostra sicurezza e la nostra salute: bisogna mostrargli gratitudine non soltanto quando esce allo scoperto per vaccinarci nei tendoni o assisterci in occasione di eventi funesti. Guai a dimenticarlo.

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