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Covid e zona rossa, l'appello ai giovani rinchiusi: "Nessuno verrà a salvarci, protestate"

Alessia Giulimondi
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Non credevo che avrei dovuto mai chiedere il permesso di respirare, non credevo che potesse mai essermi negato il diritto a muovermi, il diritto a camminare. Eppure a questo mi sono abituata, mi sono abituata a sentirmi dire che non posso più fare nulla, che non posso guardare le persone in faccia, che non le posso toccare. Quello a cui non mi sono abituata è vedere che tutto questo sia universalmente accettato, senza dissenso, senza protesta. Non mi capacito da questa obbedienza, di questo indifferente acconsentire che pratichiamo ogni giorno. Sono in realtà sempre più scioccata e sempre più affranta dalla generale omertà, dal diffuso e impassibile subire l’insensatezza della storia che ci ritroviamo a vivere.

È l’insensatezza che mi sconcerta, la mancanza di significato che avvolge le nostre vite che scorrono nell’immobilismo e nell’inerzia, nell’accettazione passiva che i giornali e il senso comune spacciano per adattamento. Io purtroppo non lo vedo questo adattamento, io negli occhi di tutti noi scorgo solo rassegnazione e inconfessata, mal-repressa disperazione.

Vi scrivo solo per dirvi che io mi sento responsabile di tutto questo. Non riesco più a incolpare solo i governi o i giornali o le multinazionali - che vanno sempre messe in mezzo, d’altro canto. Io mi sento responsabile perché ho ventidue anni e mi comporto come se ne avessi settanta, già vecchia e frustrata, scettica e disillusa. Sono certa che anche voi vi sentite così e non serve dirlo ad alta voce, basta notare le “puncicate” allo stomaco, il senso di ansia e di solitudine che vi cammina accanto sempre, non importa quanto proviate a mentire a voi stessi.

Io ho deciso di non mentire più e, detto sinceramente, va molto meglio così. Va meglio perché almeno posso vedere il disfacimento e insieme ad esso la speranza, un barlume di possibilità. Se si accetta di non guardare la distruzione, non si potrà mai scorgere la rinascita. Altrimenti non saremmo nient’altro che una civiltà di ciechi che brancolano sparpagliati nel buio dei loro occhi. Non vi sentite così anche solo un po’? Soli, immersi nella nebbia, intirizziti e inermi?

Non verrà nessuno a salvarci, ragazzi. I “grandi” hanno troppa paura, siamo noi che non dovremmo averla. Tocca a noi ricominciare a vivere, reclamare il diritto all’esistenza, nella sua banalità, nel suo continuo muoversi ed evolversi. È venuto il momento di smettere di raccontarci che è solo un momento e poi passa. Non è così. Non sarà così. Vi scrivo pregandovi di raccogliere le energie della giovinezza che ci è temporaneamente stata data e di farne qualcosa, qualcosa che abbia un senso.

Vi chiedo di protestare insieme a me, di manifestare dissenso, di contestare e dissentire in tutte le forme possibili, di riaffermare voi stessi quali esseri umani fatti per vivere in strada, dove si sente l’odore delle persone e si è parte di una collettività che si muove e respira all’unisono, che produce energia in cambio di essa, consapevole di vivere in un grande flusso esistenziale che ci sovrasta e ci trasporta, che non finisce con noi, che si autoalimenta nel suo incessante fluire.

L’immobilismo è nocivo e innaturale, l’immobilismo è morte. Oggi come mai viviamo nella maniera più innaturale possibile, anni luce lontani da ogni altro essere vivente, lontani dalla nostra più intima natura. Non credo, però, che qualcuno ci stia uccidendo, credo, invece, che ci stiamo suicidando, in massa, silenziosamente, abdicando alla vita volontariamente, rinchiusi dentro casa, dentro le nostre menti intossicate e fragili. Non mentite a voi stessi, è la pura verità, lo sappiamo tutti e tutti non stiamo facendo nulla per fermare la catastrofe.

Per questo adesso invito tutti noi a credere, per una volta semplicemente credere che le cose possano essere diverse da come ce le hanno presentate, che noi, giovani e forti come tutti dicono, possiamo insegnare se non al mondo, ma a una sua parte, che sia anche solo un condominio o un quartiere, che noi possiamo incidere sulla storia attivamente e non solo passivamente, come stiamo facendo ormai da un anno.

Antonio Gramsci in un famoso passo della “Città futura” scrisse “Io odio gli indifferenti”, monologo famoso, ben interpretato da molti attori, probabilmente affatto capito nella sua potenzialità pratica. Gramsci scrisse che “l’indifferenza opera potentemente nella storia, opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; (...) Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare (...).”

Ebbene, io non odio gli indifferenti, li capisco, li comprendo, perché so che spesso l’indifferenza può essere solo un accavallarsi di circostanze o, come più spesso capita alla nostra generazione, un’inclinazione naturale o indotta dalla società, una caratteristica individuale o di gruppo. Ma questo non significa che vada avallata, che non vada comunque condannata. Questo non toglie che Gramsci avesse dannatamente ragione. Siamo ancora in tempo. Io ci credo. Credo che siamo ancora in tempo.

 

Vi prego anche solo di pensarci.

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