Il giorno di Sinner, picconatore gentile
Il mancato passaggio al Quirinale. Con i suoi «no», Sinner piccona la retorica dello sport di Stato. Cossiga lo faceva con le sfuriate in diretta, lui in silenzio, con il calcolo di chi programma la carriera come un algoritmo. Diversi nei toni, uguali nell’effetto: entrambi hanno tolto il tappo a un Paese che fatica a convivere con la libertà degli altri. Un ministro della Prima Repubblica, Carlo Donat Cattin, disertò il giuramento al Quirinale per un appuntamento dal barbiere; Sinner ha preferito la terra rossa ai giardini del Colle per perfezionare il servizio.
La sua ultima rinuncia alla Davis ha diviso l’Italia come una crisi di governo. Da una parte i nostalgici della Prima Repubblica; dall’altra i giovani che vedono in Sinner un professionista globale per cui il corpo è un investimento, non un feticcio patriottico. E com’è normale per un campione dello sport, vive a Montecarlo: nel mondo è routine, in Italia un caso. È il solito scontro generazionale che ci trasciniamo da decenni: chi si commuove all’inno e chi guarda al ranking, contando premi spesso devoluti in beneficenza e provenienti da aziende italiane. Intesa Sanpaolo aprì la strada grazie a una felice intuizione dell’area guidata dal «cardinale delle relazioni», Stefano Lucchini.
In mezzo, come sempre, i benpensanti. Predicano modernità ma rimpiangono la leva; invocano meritocrazia ma detestano chi la incarna. Per loro Sinner è colpevole due volte: perché vince e guadagna e perché non si scusa mai per essere bravo. Cresciuto tra neve e rifugi, nessun padrino, nessun cerchio magico. Solo lavoro, disciplina e una testa più pesante del braccio. A tredici anni lascia casa per Bordighera per allenarsi con Riccardo Piatti, mentre i suoi coetanei cercavano followers. Da allora ha fatto l’unica cosa che in Italia suscita sospetto: ha creduto in sé stesso. Inflessibile alle distrazioni, ossessionato dal migliorarsi, maniacale nella precisione e, allo stesso tempo, un ragazzo semplice.
Ed è proprio questa normalità che divide. In un Paese dove l’identità è una religione e l’appartenenza un obbligo, Sinner viene accusato di non essere «abbastanza italiano» da chi confonde l’accento con la patria e di essere «troppo italiano» dagli Schützen, gli ultras dell’autonomia altoatesina. Per alcuni è un traditore, per altri un infiltrato. Ma i biasimi al peccatore Sinner fanno sorridere. In Italia, chi emerge deve essere rimesso al proprio posto. È accaduto in politica - da Craxi a Berlusconi, da Renzi a Draghi - a chiunque non chiedesse permesso. Ora tocca al tennis replicare il copione.
Il «picconatore gentile» ha così scoperchiato lo scontro tra due Italie: quella che rimpiange il passato e quella che prova a costruire il futuro. I primi vedono nella Davis un dovere morale, i secondi una scelta strategica. I primi cercano l’eroe collettivo, i secondi accettano l’individuo. La frattura è culturale prima ancora che sportiva. E poi c’è lui, Sinner, che non alimenta le polemiche, non risponde agli attacchi, non cade nel sentimentalismo. «Sono orgoglioso di essere italiano, ma quello che non mi piace è che tutti parlano della mia rinuncia e nessuno del valore della squadra». Bastano poche parole per spazzare via settimane di chiacchiere e riconoscere il valore degli altri azzurri - la squadra costruita dalla FITP di Angelo Binaghi e Massimo Verdina -: Berrettini, Cobolli, Sonego, Musetti, che a Bologna non giocherà la Davis perché ha preferito fare il papà (e nessuno su questo ha battuto ciglio: anche qui due pesi e due misure, forse perché uno è toscano e l’atro altoatesino?), Bolelli, Vavassori. Almeno sul campo, non ci sentiamo più secondi a nessuno.
Così, mentre il Paese si divide, Sinner continua a essere ciò che è: un ragazzo di ventiquattro anni che si allena in silenzio, visita un centro oncologico, gioca a golf, guida la sua supercar, si prepara alle competizioni con precisione chirurgica, si innamora di donne bellissime che rifuggono i riflettori. È il volto di un’Italia che funziona: quella che lavora senza spettacolo. Nel frattempo, gli Schützen protestano, i moralisti televisivi parlano di mancanza di «spirito nazionale» e i nostalgici di Pietrangeli si indignano perché non urla abbastanza. Ma il mondo va altrove. Gli atleti si gestiscono come aziende: dosano energie, scelgono obiettivi, pianificano stagioni. Sinner non ha rifiutato la patria: ha solo applicato la logica. In Italia, però, la logica resta il più pericoloso degli sport. E se la abbini a rigore, talento, un team costruito su misura e una famiglia sempre presente, ottieni quel combinato disposto che potrebbe riportarlo presto al numero uno del mondo, nell’epica rivalità che sta segnando questa generazione del tennis: Sinner-Alcaraz. I due si allenano insieme, si abbracciano, si fanno selfie, scherzano. Il mondo fuori cerca la polemica, e loro, di rimando, danno lezioni di civiltà.
Anche questa è una picconata: contro l’Italia che vive di sospetto e invidia, incapace di accettare che la grandezza possa essere semplice.
In fondo Sinner fa come Cossiga: piccona con sincera eleganza. E così, quando ha detto a Torino «C’è tanta Italia qui in Italia», il Paese intero ha riso, ma si è anche un po’ riconosciuto. Una frase nata per caso, ma già destinata ai libri di costume: ingenua come Forrest Gump e poetica come solo l’innocenza può essere. E allora, nella magica città sabauda con le sue antiche leggende esoteriche, se oggi avrà la meglio, più che maestro del Masters, gli iniziati del tennis potrebbero consacrarlo, sorridendo, “Gran Maestro del tennis mondiale”. Un titolo guadagnato non solo a colpi di racchetta, ma con quei «no» che in Italia pesano più di un ace. N.B.: Panatta su Rai2, in diretta, è un dono raro: i dirigenti Rai non arrivano a capire che il tennis è oggi il romanzo collettivo del Paese e va seguito sempre.
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