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Ribot, imbattuto cavallo del secolo

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A sessanta anni dall'esordio sulle piste di galoppo l'eccezionale traiettoria agonistica del purosangue italiano

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Fu l'enfasi francese, prima d'altri, sintetizzata sulla prima pagina d'un quotidiano parigino, a fissarne la statura: «84.700 appassionati e il vostro cronista hanno avuto ieri, alle 16.47, la fortuna, unica, di vedere in azione la più formidabile macchina da galoppo mai apparsa su un ippodromo: Ribot, l'italiano, il cavallo del secolo». Accadeva all'indomani del secondo successo del figlio di Tenerani e di Romanella al Prix de l'Arc de Triomphe di Longchamp. Era il 1956, trenta mesi dopo quel 4 luglio 1954, battesimo agonistico del cavallo italiano sui mille metri dell'ippodromo di San Siro in ambienti ippici soliti far convivere in egual misura massima eleganza e signorilità con le passioni più rozze e mercantili. Eppure, al primo sguardo, il giudizio del proprietario, il mago Federico Tesio, una vita intera dedicata all'allevamento e al mondo del galoppo, l'uomo che con immutabilità di costanza e ampiezza d'esiti superlativa aveva applicato ai cavalli le leggi genetiche studiate a metà Ottocento nella Repubblica Ceca dall'abate agostiniano Gregor Mendel, era stato singolarmente liquidatorio: «è brutto!». Ed un raffinato ermeneuta della disciplina, Luigi Gianoli, tra i rari superstiti del Savoia Cavalleria nel secondo conflitto mondiale sul fronte russo di Izbusenskij, aveva sulla Gazzetta dello Sport ulteriormente appesantito l'opinione dell'allevatore nativo di Torino: «sembrava un piccolo mulo». Tesio, il solitario, l'individualista, l'intrattabile Federico Tesio, non ebbe tempo per ravvedersi, morendo due mesi prima dell'esordio in gara del purosangue cui secondo l'antica tradizione della scuderia novarese di Dormello, divisa con giubba bianca e croce rossa di S. Andrea, legata dal 1932 alla romana Olgiata, aveva abbinato il nome del cavallo, all'alba del 27 febbraio 1952, alla storia dell'arte, richiamandosi al pittore ed incisore francese Théodule-Augustin Ribot. Con il tempo, il puledro del primo momento aveva acquisito stazza ragguardevole, con impressionante potenza toracica e polmonare, uno dei segreti della sua superiorità sul prossimo equino, assimilabile a quella manifestata in periodi analoghi, su altri tracciati agonistici, da Fausto Coppi. In tre anni d'attività, Ribot corse sedici volte, imbattuto. Tra le consacrazioni, oltre le due affermazioni in terra francese, il successo del 1956 nell'ippodromo di Ascot nelle King George VI and Queen Elizabeth Stakes su High Veldt, il cavallo della regina Elisabetta II salita da due stagioni al vertice dell'impero britannico, sei lunghezze, un baratro, il divario tra i due purosangue. Nell'eccezionalità dell'ascesa agonistica, Ribot ebbe tre complici. L'allenatore, Vittorio Ugo Penco, originario di Deruta, braccio destro di Tesio, primo ad intuire le potenzialità del cavallo e unico capace di assorbirne bizzarrie e intemperanze, non infrequenti. Il fantino, Enrico Camici, pisano, ingaggiato dalla Dormello-Olgiata nel 1946, 4.090 vittorie in una carriera iniziata quattordicenne, sempre in sella al figlio di Tenerani e Romanella nel triennio 1954-56. Magistris, coetaneo del fuoriclasse, compagno fidato mai sostituito in allenamento e in trasferta, dirimpettaio di box, un nitrito il saluto di prima mattina: «quando Ribot faceva il pazzo - ancora Gianoli - Magistris, incapace di stare al gioco, restava fermo, immobile a fissarlo con uno sguardo stupito e anche pieno di deplorazione». Dopo il secondo trionfo parigino, attorno al mito dell'imbattibilità furono confezionate due esibizioni, a Milano la prima, a Roma la seconda, Capannelle, pista mai frequentata. Quella capitolina fu in linea con l'imprevedibilità del campione: superato il palo d'arrivo in compagnia di Magistris, forse infastidito da una presenza insolita e comunque imprevista, Ribot scartò, inviando sull'erba Enrico Camici. Fu il suo saluto al pubblico italiano. Avviato alla riproduzione in Inghilterra, acquistato negli Stati Uniti per un milione e mezzo di dollari, trattenuto ancora oltre Oceano, Ribot morì «esule» a Lexington, nel Kentucky, ventenne, il 30 aprile 1972, per un'emorragia interna. Una pietra grigia, su quanto resta del cuore, della testa, dei testicoli e degli zoccoli, a indicarne l'identità.

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