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Dargen D'Amico a Sanremo con "Onda alta": "Il movimento ci appartiene"

Valentina Bertoli
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Architetto del suono, sperimentatore della parola. Dargen D'Amico, classe 1980, torna a Sanremo con le spalle più larghe e un progetto solido. «Onda alta» è il titolo della canzone in gara. Un pezzo dritto, dal sapore mediterraneo, che parla di immigrazione e di movimento e che farà ballare tutti in maniera scomposta, animalesca. «Il movimento ci appartiene, nessuno è nato unicamente qui. Credo che i problemi siano una possibilità di crescita, di sviluppo. Sono ideologicamente sensibile ai giovanissimi, che non riesco a vedere come elementi territoriali. Il viaggio, lo spostamento, mi procurano delle riflessioni», premette. Rapper, cantautore, autore, beatmaker, produttore e per due edizioni giudice di X Factor, Jacopo Matteo Luca D'Amico è tutto e il contrario di tutto. Indossare un abito argentato, con pinne sulla schiena a mo' di squalo, e ne va fiero. Poi, però, si rannicchia dietro a un paio di occhiali da sole fluo per avere una lente sulla realtà, per filtrare la complessità delle riflessioni.

 

 

 

Tra il serio e il faceto racconta un universo, il suo, in cui i ritmi vorticosi si incontrano e si scontrano con argomenti polarizzanti e la necessità di inciampare sul linguaggio e sul messaggio. «Mi diverto a produrre e non mi diverto a scrivere. La produzione non mi chiarisce nulla, la scrittura mi mette di fronte a risposte che non cercavo. Le cose peggiori che metto nei brani le ho dette io. Una sorta di igiene personale: butti fuori. Ho un rapporto terapeutico con la cassa dritta, è il tamburo tribale, l'obbligo a fare qualcosa», confessa. Oggi esce il nuovo album, «Ciao America», un carosello di fotografie che immortalano un tempo confuso, carico di contraddizioni. Ogni traccia è come un giro di giostra: mentre la musica tuona e si attorciglia forsennatamente, gli oggetti, densi, vengono a galla come pezzi di DNA della nostra epoca. «“Ciao America” è un titolo cumulativo. Quando lavoravo ai brani di questo disco, ho notato che avevo una tendenza a riferirmi molto ai legami familiari. Rappresenta un capitolo importante della mia gioventù, quando in vacanza in Sicilia si parlava dei parenti emigrati. È una sintesi di quello che faccio: musica italiana che si approfitta di alcuni stilemi musicali degli Stati Uniti. Un mix riassuntivo del momento che il mondo sta vivendo, di un passaggio dello scettro dall'Occidente all'Oriente», spiega, alludendo a un Medio Oriente in ebollizione.

 

 

 

Ma quello dell'artista 43enne è un disegno coerente e strutturato. L'idea del nomadismo si accompagna all'urgenza di una razionalità discorsiva. Ed è per questo che, a partire da martedì 6 febbraio, nella cittadina ligure aprirà «Edicola Dargen», un luogo di dialogo e di talk, e ogni mattina verrà distribuito gratuitamente un magazine di approfondimento. Non uscirà dal seminato neanche la proposta per la serata dei duetti. Dargen si esibirà insieme alla BabelNova Orchestra omaggiando la musica di Ennio Morricone, che proprio all'estero ha trovato il riconoscimento. «Dove si balla», il pezzo del primo Festival, ha travolto le generazioni ed è stato confermato per sei volte disco di platino. Successo, questo, che fa ben sperare. «Io non strutturo le canzoni, cerco di rispondere a una richiesta di trasparenza con me stesso. Sono stimolato da quello che accade», ammette. Poi ci scherza su: «Questo è un mio difetto: non hai subito la possibilità di capire che cosa sto raccontando».

 

 

 

In «Check-in», una delle canzoni del nuovo disco, il cantautore dice: «Volevo andare più a fondo, scrivere di questo mondo, ma alla fine è ridotto ad un uomo che cerca la promo». Una critica al mercato musicale? «Non credo molto ai limiti del mercato musicale italiano. Quando ero molto giovane acquistavo delle cassette negli Autogrill e c'era una vasta scelta di musica neomelodica. Mi sono innamorato di questo genere, della modalità di racconto di cose crude, quotidiane. Io pensavo impossibile che potesse essere ascoltata in tutta Italia ed è successo». Non si abbandona alla foga della narrazione, ma Dargen è schietto: «Sono fatto per scrivere. Ho iniziato alle elementari, con la maestra Angela. Ci ho preso la mano o forse la mano ha iniziato a prendere me. La scrittura ti permette di risolvere senza sapere che cosa», conclude. I banchi di scuola, la certezza del domani.

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