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Teatro di Roma, una poltrona va alla sinistra dopo la lagna Pd su De Fusco

Susanna Novelli
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Ribaltare le regole, trame poco strutturate e un senso che si fa fatica a comprendere. Non si tratta di un’opera di Samuel Beckett ma di quanto accaduto nella vicenda, comunque "assurda", del Teatro di Roma, la cui Fondazione ha la gestione dell’Argentina, del Torlonia e dell’India, divenuto simbolo di «libertà culturale» nella nomina - per la prima volta dopo decenni - del suo direttore, Luca De Fusco, da parte della maggioranza di centrodestra del Consiglio di amministrazione (Ministero della Cultura, Regione Lazio e Comune di Roma). Un «oltraggio» all’egemonia sinistra che ha tenuto banco per quasi una settimana, con tanto di un consiglio comunale dedicato in cui il sindaco di Roma Capitale, Roberto Gualtieri, ha parlato per più di trenta minuti. Ben più concentrato rispetto a quella seduta dell’Assemblea capitolina dedicata all’emergenza rifiuti in cui fu immortalato mentre giocava a tressette con il cellulare. Del resto la questione del Teatro di Roma è più importante: è quella del potere. Prima la batteria del centrosinistra contro il «blitz fascista», poi la ritorsione messa nero su bianco in Campidoglio con l’impegno ad avviare le procedure di recessione dalla fondazione del Teatro di Roma. Dall’altra parte la difesa ad oltranza del centrodestra che parla di «ingordigia delle poltrone».

 

 

«Noi non vogliamo occupare la cultura. Noi vogliamo che la cultura non sia occupata dalla sinistra. Che sia libera», sosteneva l’assessore alla Cultura della Regione Lazio, Simona Baldassarre cinque giorni fa. In tutto il parapiglia di uno scontro ideologico che ha tirato in ballo persino il premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein, i pontieri lavoravano sottobanco nella consapevolezza che probabilmente la cultura non sarà mai poi così libera. Tra i primi il presidente della Commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, da sempre attento alle vicende del Teatro di Roma, che ha lanciato sin da subito l’appello al dialogo tra le tre istituzioni coinvolte. E così, tra accuse reciproche e ritorsioni, sabato sera si è arrivati all’accordo. Una via d’uscita in perfetto stile democristiano, quella del doppio incarico. Ognuno si tiene il suo, insomma.

 

 

E già perché anche la cultura, così libera e meritevole, può forse sottrarsi alle regole del teatro ma non a quelle del manuale Cencelli. L’accordo prevede la modifica dello statuto della Fondazione in cui oltre al direttore artistico (Luca De Fusco) verrà nominato un direttore generale. In lista Onofrio Cutaia (già nella prima rosa di nomi) ma il Campidoglio potrebbe convergere su un'altra figura, almeno per salvare la faccia e dare l’onore delle armi a un avversario così arrendevole, scegliendo un terzo nome sinora estraneo allo spettacolo. Una poltrona del resto non si nega a nessuno, figuriamoci a teatro. Peccato che Godot non arriverà, nemmeno stavolta. E l’attesa per una cultura davvero libera è destinata a protrarsi all’infinito.

 

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