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La 'ndrangheta a Roma voleva bar, osterie e supermercati Elite

Augusto Parboni
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Alla ’ndrangheta romana non bastava gestire pasticcerie, pescherie, pub e ristoranti. Il suo obiettivo era infatti quello di allargarsi a tal punto da voler gestire anche una catena di supermercati. In base alle indagini condotte dalla procura di Roma, i 43 arrestati due giorni fa, accusati di far parte di un’associazione mafiosa calabrese, avrebbero tentato di mettere le mani sulla catena di supermercati «Elite». Nelle migliaia di pagine di ordinanza che tra Roma e Reggio Calabria ha portato a 77 misure cautelari, tra carcere e domiciliari, spuntano intercettazioni che fanno proprio riferimento all’intenzione di chiudere l’affare sui supermercati. «Nelle vicinanze della sua abitazione stavano ristrutturando un supermercato della catena "Elite” e i lavori di ristrutturazione dell’immobile li stava eseguendo un suo amico, tale “Roberto”, grazie al quale sarebbe stato possibile inserirsi per ottenere una fornitura e, in prospettiva, espandersi sugli altri numerosi supermercati della medesima catena presenti nella provincia di Roma...“ma siccome ne stanno facendo uno grosso (costruendo)...un amico gli sta facendo tutti i lavori...e stavo vedendo per il pane...si compra il pane...sto parlando qua con questo amico nostro...e lui ci stiamo facendo tutta la roba...ho detto...casomai già lo conoscete perché...mi sta dicendo"...(e riferendosi a terza persona in ambientale si sente chiedere il numero e la persona risponde 58) 58 centri supermercati su Roma....Ah...(sempre in ambientale si riferisce a terza persona dicendo che va via e che si vedranno dopo)...aspe...il supermercato Elite...ne stanno aprendo uno grosso qua...noo...c'è un amico nostro...che ci sta facendo tutta la roba...benotelle...cose...questa roba per terra...no?...ed è venuto a prendersi la mia motopala”».

Uno degli indagati, in base a quanto riportato dagl gip nel provvedimento restrittivo, si mostrava subito interessato alla proposta e spiegava che «avrebbero potuto fornire non solo pane, ma anche generi alimentari di altra natura (“digli per la pasta Pino...abbiamo la pasta fresca all’uovo...la facciamo sotto vuoto anche per i supermercati...io gliela porto ai supermercati”). Proseguendo, si apprendeva che lo stesso indagato, grazie all’intermediazione di “Roberto”, si sarebbe adoperato per avere un contatto preliminare con il direttore del supermercato». Insomma, il clan calabrese che ha avuto l’ok per poter operare in «autonomia» nella Capitale, per mesi ha cercato di ottenere il monopolio della catena di supermercati nella città eterna. Ma la presunta attività criminale degli arrestati avrebbe tentato anche di «appropriarsi» di attività commerciali a due passi dal Vaticano: bar, tabacchi e osterie, alcune delle quali a Borgo Pio. Nelle carte dell’inchiesta, gli inquirenti riportano anche alcuni spaccati della mentalità dell’organizzazione criminale sotto l’aspetto familiare. Spiegano, cioè, quali, secondo gli arrestati, devono essere i comportamenti da seguire e quelli che invece devono essere perseguiti, giustificando, in alcuni casi, anche delitti di parenti. «Solo con l’omicidio della madre la famiglia aveva potuto recuperare l’onore che era stato compromesso in quanto la stessa era stata accusata che da vedova aveva avuto altre molteplici relazioni sentimentali, trascurando i suoi doveri di fedeltà verso il defunto e di prendersi cura dei figli».

Per il presunto boss della ’ndrangheta a Roma, Antonio Carzo, era rischioso stare nella Capitale, «dove erano stati trasferiti una serie di magistrati e di ufficiali di pg che avevano lavorato in Calabria e avevano combattuto a Sinopoli e Cosoleto contro la cosca Alvaro ("tutta la famiglia nostra")». È quanto si legge nell’ordinanza con cui il gip di Roma Gaspare Sturzo ha disposto 43 arresti nell’ambito dell’indagine della Dda della Capitale e della Dia, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò e dai pm Giovanni Musarò e Francesco Minisci, nei confronti della prima ’ndrina calabrese attiva a Roma. A parlare in un dialogo intercettato è proprio Carzo: «...comunque c’è una Procura...qua a Roma...era tutta...la squadra che era sotto la Calabria. Pignatone, Cortese, Prestipino». «Sono tutti qua», interviene l’interlocutore. E il boss conclude: «E questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri...Cosoleto...Sinopoli...tutta la famiglia nostra...maledetti».

E ancora: «Si deve evidenziare che già in una conversazione captata il 9 settembre 2017 Carzo, traendo spunto da un’iniziativa di Klaus Davi e poi commentando l’ergastolo comminato a Carlo Cosco a Milano e l’esito del processo "Aemilia" a Bologna - scrive il gip - aveva sottolineato la necessità di stare "quieti quieti", ritenendo evidente che in quel momento storico la magistratura e le forze dell’ordine avessero preso di mira la ’ndrangheta ("ormai bisogna capire...c’è stato un periodo che hanno bersagliato i siciliani...Cosa Nostra....e noi...sotto traccia facevamo...ora è da capire che ci hanno preso in tiro a noi calabresi e ora invece dobbiamo stare più quieti"), precisando che, comunque, "eh le cose si fanno..."».
 

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