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Nicola Zingaretti candidato sindaco di Roma: se vuole correre lasci la Regione

Francesco Storace
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Stavolta Nicola Zingaretti deve manifestare quell’onestà che non deve dimostrare davanti ad un giudice. Ma deve essere onesto con il popolo. Perché se le voci che girano sono vere, neanche lui ha il diritto di prendere per i fondelli i cittadini.

Il governatore del Lazio intende davvero candidarsi a sindaco di Roma? Lo dica con chiarezza, perché la finzione non può durare a lungo, proprio per il peso rilevante che la regione ha sulla città.

Se le indiscrezioni hanno un fondamento, pare che anche Zingaretti voglia le primarie del centrosinistra – si svolgeranno il 20 giugno – che però rifiutò di sollecitare quando si candidò alle regionali del Lazio nel 2016.

Nessuno può avere dubbi che se il presidente della regione scende in campo nelle primarie, a due anni dalla fine del mandato, tutti concorreranno per fargliele vincere. Azzopparlo sarebbe suicida per il partito democratico. Tutti ai piedi più che ai remi, per non perdere la faccia.

Ma fin da ora Zingaretti si deve mettere in testa una cosa: è evidente che se si candida alle primarie, che vincerà, un minuto dopo averle vinte dovrà sciogliere la regione. Senza se e senza ma. Perché sarebbe inammissibile tenere a bagnomaria l’istituzione in attesa delle comunali di Roma.

Le stesse voci che girano – e sono i suoi che ne parlano – affermano che l’intenzione di Nicola Zingaretti sarebbe quella di sciogliere il consiglio regionale solo una volta vinte le elezioni capitoline: ma nessun medico gli ha ordinato di lasciare la regione due anni prima della fine del mandato per presentarsi in Campidoglio. È una scelta solo ed esclusivamente sua.

Se si è stufato della regione Lazio e ambisce ad andare in Campidoglio, possiamo fargli sportivamente gli auguri: ma è inimmaginabile pensare di non dover votare assieme per comune e regione. Fare il contrario significherebbe turlupinare quasi sei milioni di elettori e di elettrici del Lazio.

Si è probabilmente stufato di stare alla guida della regione. Forse se ne vergogna come si vergognava del Pd quando lo ha mollato perché nel partito – parole sue – parlavano solo di potere e di posti. E alla regione no? Sicuramente tutti i guai di questi anni di suo governo non saranno dimenticati da chi gli si contrapporrà, perché in Campidoglio c’è bisogno di trasparenza e serietà e l’aula della Pisana è buon testimone dei troppi scandali rimasti dormienti nelle aule dei palazzi di giustizia. Ma questo non significa dovercisi abituare come se nulla fosse mai accaduto da quelle parti.

Ritenere che si debba aspettare l’esito delle elezioni comunali per rinnovare una regione che il suo presidente abbandona prima del tempo sarebbe davvero fantasioso. Anche perché se Zingaretti vince in Campidoglio, che si fa? Si vota entro novanta giorni, a gennaio? Sarebbe una specie di pandemia personale quella che provoca due elezioni in un solo trimestre con milioni di persone ai seggi.

Zingaretti perde? E che si resta a fare in una regione da cui vuole scappare? Sì, il governatore che molla il posto che occupa deve sentire il dovere della serietà verso tutti, compresi gli avversari politici. È tempo di tornare ai momenti in cui il rispetto per le istituzioni era prevalente e non assoggettato esclusivamente agli interessi di parte e/o personali. Anche lui deve fare i conti con il decadimento di una politica che una mossa sbagliata – non la candidatura, che ha una sua legittimità, ma impedire di votare per la regione – comporterebbe per la credibilità di tutti.

Decida, Zingaretti, e sia conseguente. A volte i comportamenti possono avere una forza superiore persino alle previsioni di legge. Certo, la candidatura a sindaco di Roma non è incompatibile con l’incarico che ricopre e lo sarebbe solo una volta eletto. Ma pensare di avere il diritto di disporre di entrambi per i mesi necessari per votare per la regione solo dopo la pur difficile prova per il Campidoglio è semplicemente illusorio. Scatenerebbe il finimondo.

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