Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Inizia la guerra della Mala Capitale

Il Pg Otello Lupacchini

Parla il Pg Lupacchini, il magistrato che istruì il processo alla Banda della Magliana: "Dopo gli arresti a Roma di capi come Senese, Carminati, Spada Fasciani e Casamonica, si è creato un vuoto di potere"

Valeria Di Corrado
  • a
  • a
  • a

«Si è rotta la pax criminale a Roma. È possibile che ci siano altri morti ammazzati in città». Se si vuole decifrare i fatti di sangue che accadono oggi nella Capitale, bisogna tornare indietro nel tempo, ad almeno 50 anni fa, affidandosi a chi rappresenta la memoria storica e giudiziaria di stragi, omicidi, rapine, traffici di armi e droga avvenuti all'«ombra» del Colosseo. Otello Lupacchini, attuale procuratore generale della Corte d'appello di Catanzaro, si è occupato nella sua lunga carriera di magistrato, fra tanti altri, degli omicidi del pm romano Mario Amato, del banchiere Roberto Calvi, del generale Leamon Ray Hunt, del professore Massimo D'Antona, e, altresì, anche della strage di Bologna e di quella brigatista di via Prati di Papa. Ma soprattutto è il magistrato che nel 1994 istruì il processo contro la famigerata Banda della Magliana, portandone alla sbarra tutti i boss e gli affiliati. Il 10 gennaio scorso Andrea Gioacchini, uscito quattro giorni prima dal carcere e ancora sorvegliato speciale, viene colpito da un proiettile alla testa mentre è in macchina, con la compagna seduta a fianco, davanti all'asilo di via Castiglion Fibocchi alla Magliana, dove aveva appena accompagnato i figli. A premere il grilletto un uomo, ancora oggi senza nome, in sella a uno scooter e con il viso coperto da un casco integrale. Inizialmente viene indagato (e poi subito archiviato) Augusto Giuseppucci, fratello di Franco «Er Negro» della Banda della Magliana. Il 7 agosto l'ex leader degli Irriducibili della Lazio Fabrizio Piscitelli, conosciuto con il soprannome di «Diabolik», viene freddato alla «luce del sole» su una panchina del parco degli Acquedotti, con un solo colpo esploso alla nuca da un killer travestito da runner, che finge di fare jogging e poi scappa su un Liberty guidato da un complice. Entrambi sono ancora ricercati dalla Polizia, mentre la Procura capitolina indaga per omicidio aggravato dal metodo mafioso. Il 2 settembre Fabio Gaudenzi, detto Rommel, già condannato per usura nel maxi processo Mafia Capitale, si fa arrestare nel suo appartamento di Formello con due armi da guerra (una revolver e una mitraglietta) dopo aver pubblicato un video su Youtube in cui sostiene di sapere chi è il mandante dell'uccisione di Diabolik e di temere di essere il prossimo a morire. Gaudenzi, con il volto coperto da un passamontagna e in dosso una felpa di «Lupin», rivendica la sua appartenenza dal 1992 a un «gruppo elitario di estrema destra denominato "I fascisti di Roma Nord", con a capo Massimo Carminati». Aggiunge: «Non siamo mafiosi, siamo fascisti», tutto ciò a ridosso della sentenza con cui la Cassazione il mese prossimo dovrà decidere se confermare la condanna di Carminati e Salvatore Buzzi per associazione mafiosa. Con l'assassinio di Gioacchini, seguito sei mesi dopo da quello di Piscitelli, si è riaperta la «stagione» degli omicidi a Roma? «Da studioso del fenomeno, senza conoscere gli atti di indagine, penso che l'omicidio di Gioacchini davanti all'asilo sia la conseguenza naturale del comportamento di chi sia rimasto fuori dal giro per un certo tempo, esce dal carcere e vuole mettersi in pista, ma il campo è ormai stato occupato da altri. Diverso è il caso di Piscitelli, se è vero che era inquadrato in un "sistema criminale" che aveva raggiunto il suo equilibrio per la presenza di vari soggetti ora defunti (è il caso di Vito Triassi), definitivamente condannati (è il caso di Michele Senese) o gravati da condanne ancora sub iudice, ma particolarmente gravi (come i Casamonica, gli Spada, i Fasciani o Carminati). Questo "sistema criminale" rischia di perdere quei referenti sul territorio che hanno mantenuto l'equilibrio che c'è stato a Roma negli ultimi anni. Ne consegue che qualcuno trova davanti a sé delle "praterie" e ovviamente fa di tutto per affermarvi il proprio potere, a scapito di altri; o comunque cerca di mostrarsi abbastanza forte da essere preso in considerazione come soggetto che possa concorrere, con gli altri, a ristabilire l'equilibrio che si è rotto». In definitiva, quindi, si è rotta la «pax» che nella Capitale ha permesso finora a diversi gruppi criminali di coesistere senza grossi spargimenti di sangue? «A Roma non c'è solo una criminalità indigena, ma anche un'articolata criminalità autoctona, con divisione delle attività illecite e spartizione del controllo del territorio. Essendo la Capitale d'Italia, non è il terminale del sistema, ma il server attraverso il quale il sistema viene controllato. Coloro che rappresentavano i poli attorno ai quali si erano coagulati i gruppi che hanno retto, almeno sino a oggi, l'equilibrio criminal-mafioso romano, sono venuti progressivamente meno: per carcerazioni di lunga durata e sentenze di condanna particolarmente pesanti. Tutto questo ha lasciato spazio alle smanie di potere e agli appetiti delle seconde e delle terze linee: personaggi privi del carisma dei loro danti causa e che, quindi, se lo devono conquistare sul campo, ma anche mossi da un'incredibile rapacità, che non è quella dei vecchi capi, capaci di valutare fino a dove spingersi con la loro avidità». I recenti omicidi sono riconducibili al vuoto di potere? «Ne sono fermamente convinto. Il vuoto di potere è la causa del fermento e dell'ebollizione del sistema. Ciò non significa che i vecchi punti di riferimento non tentino in qualche modo di mantenere il controllo sul territorio e di conservare il proprio carisma, il che, però, alimenta il marasma. Ovviamente, lo fanno in una situazione di oggettiva difficoltà, dovendo necessariamente avvalersi di "cinghie di trasmissione" che dal carcere in cui sono reclusi portano gli "ordini" al luogo dove i rispettivi sodalizi operano. Queste difficoltà di comunicazione determinano una conflittualità, sempre sul punto di degenerare in guerre, all'interno dei vari gruppi criminali, tra i soggetti che svolgono funzioni vicarie rispetto al capo forzatamente lontano». Dobbiamo aspettarci altre uccisioni? «L'esperienza insegna che, quando ci sono situazioni di questo genere, è probabile e facile che si aprano delle lotte per l'occupazione degli spazi vuoti. Molto dipende dall'intelligenza, più o meno acuta, di chi resta sul territorio, nonché dalla capacità, da parte loro, di tenere a bada gli istinti predatori che spesso li spinge a ritenere di poter impunemente "stendere le mani" sulla città o comunque di liberarsi, manu militari, di qualche "concorrente"». La modalità esemplare con cui è stato ucciso Diabolik cosa dimostra? «Dimostra una difficoltà di controllo del territorio sotto il profilo criminale. L'atleta che corre e spara un colpo solo e uccide di fronte a un autista guarda-spalle che non guarda le spalle della vittima e dà, addirittura, le spalle al killer e fugge; la probabile presenza di un palo sul luogo dell'appuntamento, che vede la vittima arrivare qualche minuto prima e quindi innesca l'azione omicida; tutto ciò lascia perplessi e, comunque, denota un'organizzazione di un certo livello: abbiamo a che fare con un killer serio, che non lascia spazio all'improvvisazione e sceglie una modalità, la più efficace ed efferata possibile: uccide con un unico colpo alla nuca, esploso a distanza ravvicinata». Pur essendo travestito da runner, spara in un parco davanti a tanti potenziali testimoni. «Piscitelli era seduto su una panchina a guardare quelli che correvano. Ciò fa pensare che avesse appuntamento con qualcuno di cui si fidava. Poi, se sia stata quella persona o un'altra ad ammazzarlo, non si sa, ma ha poca importanza». Qualcuno comunque lo ha tradito? «Sì, certo. Ed era qualcuno con cui aveva interessi in comune. Interessi criminali ovviamente, non certo il mettersi d'accordo sullo striscione da esporre allo stadio». Ci potrebbe essere una matrice albanese dietro l'assassinio di Diabolik? «Piscitelli pare avesse delle caratteristiche peculiari. Si dice che si rapportasse con paranze di rapinatori, con albanesi per il controllo dello spaccio di stupefacenti, con il tifo da stadio, tanto da aver offerto la sua opera anche in occasione della tentata scalata alla Lazio da parte dei casalesi. Insomma, sarebbe stato un personaggio che rappresentava più mondi, di cui viene descritto come il fulcro, inserito in un contesto che poteva riportare a Carminati. Quando parlo di "divisione del lavoro", intendo proprio questo. Si parte da nuclei primigeni. Ad esempio, la Banda della Magliana aveva cercato di occupare il territorio liberandosi dei gruppi concorrenti, ma se ne liberò relativamente; perché poi finì per essere una "costola" di Cosa Nostra che ripeteva a Roma dinamiche palermitane. Con l'agevolazione dei servizi segreti, interessati a servirsene per attività che non erano più appaltabili alle formazioni terroristiche di estrema destra, come accadeva sino alla metà degli anni Settanta. E così, i Nar iniziano a porsi in alternativa allo Stato: lo dimostra il fatto che si richiamassero a Pier Luigi Concutelli, autore dell'omicidio del magistrato Vittorio Occorsio avvenuto a Roma nel '76, per vendicare lo scioglimento di Ordine Nuovo. Questa rottura era già stata preannunciata con la strage nera di Peteano del ‘72 che aveva per vittime i carabinieri, invece che i cittadini comuni colpiti dallo stragismo precedente». Tornando ai giorni nostri, dal punto di vista mediatico si è mai vista una rivendicazione come quella di Gaudenzi in «diretta web» prima di farsi arrestare? «I tempi cambiano, ma la credibilità del messaggio deve avere come premessa la credibilità dell'autore. Uno che dice: "non siamo fascisti", poi si corregge "siamo fascisti e non siamo mafiosi", ha poca dimestichezza con ciò che dice. Poi il fenomeno virulento del terrorismo antistatuale della destra non lo vedeva coinvolto. Gaudenzi nasce nei primi anni Settanta. Quando i cosiddetti fascisti operano in formazioni come i Nar, Terza posizione e Movimento rivoluzionario politico, Rommel non aveva ancora l'età della ragione. Oggi si presenta quale fascista di Roma nord, rivendicando per sé e per Carminati la banda armata o l'associazione sovversiva, in contrapposizione con la contestazione mossa allo stesso Carminati nel processo Mafia Capitale. Sotto questo profilo non penso possa godere di grande credibilità. Aveva promesso di rivelare il mandante dell'esecuzione di Piscitelli, ma - da quello che è trapelato - non sembra aver fatto grande rivelazioni. Il fatto, poi, che pretendesse lui stesso di scegliere il proprio interlocutore istituzionale e giudiziario (il procuratore antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri, ndr) suona male, perché o si sopravvaluta rispetto all'interlocutore cui pensa di poter raccontare tutto o magari sopravvaluta l'interlocutore stesso rispetto alla comprensione di ciò che intende raccontare. In ogni caso, c'è un giudice naturale precostituito per legge e il pm è quello presso il giudice precostituito per legge, anche se, purtroppo, il rispetto delle regole subisce degli sfilacciamenti persino negli ambienti in cui si rivendica come stella polare la legalità». Quindi Gaudenzi non sa di cosa parla? «In sostanza no. E comunque, se voleva dare un assist a favore di Carminati in vista della sentenza di Mafia Capitale, è un assist piuttosto goffo». Anche perché la banda armata non gli è stata contestata in quel processo. «Non è detto poi che la banda armata non sia compatibile con il terrorismo mafioso. Il tentativo è goffo anche perché posto in essere in modo estemporaneo: "siamo fascisti però voglio parlare solo con tizio, perché questa è mafia vera". Il principio di non contraddizione salta per aria. "Se sei fascista, cosa ti interessa della mafia? E come fascista che tipo di contrasti hai con la mafia in un momento di vuoto di potere criminale su Roma?". Se poi ha scelto questa particolare via di fuga per non fare la fine di Piscitelli, questo è un altro discorso». Nel suo interrogatorio con i pm della Dda Gaudenzi ha fatto riferimento a un traffico d'oro emerso nell'indagine Mafia Capitale, che a suo dire sarebbe il «trait d'union» tra la morte di Diabolik e di un altro estremista di destra, Maurizio Terminali, trovato senza vita a Brescia per un'overdose da metadone sospetta. «Il richiamo a una vendita d'oro, che poi sarebbe stata la garanzia per un prestito risalente a cinque o sei anni or sono, appare poco credibile. Quella storia, tra l'altro, non aveva avuto sviluppi di indagine. Concediamo tutto a Gaudenzi, anche di inventarsi una "second life", ma ci deve essere un aggancio tra quello che accadeva ieri e la realtà di oggi. La realtà di oggi è il cadavere di un personaggio che frequentava più mondi, che muore su una panchina, alla quale viene dato fuoco. Sono tessere che difficilmente riescono a incastonarsi in un disegno che parte 5 anni fa in una sperduta tribù africana, dove si arriva con un aereo privato e una valigetta piena di soldi». Il «fattore» oro si ritrova anche in altre inchieste romane? «Oro forse no, ma preziosi certamente sì. Ad esempio, si parla di diamanti anche nel processo Fastweb che vedeva indagato Mokbel e che come fatto collaterale avrebbe portato all'omicidio di Silvio Fanella, nel quale emergono vecchie ombre del periodo Nar, come Egidio Giuliani ed Emmanuele Macchi Di Cellere. Sappiamo che l'Africa è continente di elezione anche per altri soggetti, come Antonio D'Inzillo, uno dei killer di De Pedis, morto in Kenya e ben presto cremato, sicché non se ne saprà più nulla». Nel video di Gaudenzi potrebbero nascondersi messaggi subliminali? «Quello che finora Gaudenzi ha detto ai magistrati, specificando di non voler collaborare, non giustifica la messa in scena del suo arresto. Ha detto che non si fidava dei carabinieri, che preferiva farsi arrestare dalla polizia, forse perché i carabinieri sono quelli che hanno indagato su Mafia Capitale. In questo guazzabuglio ci potrebbero essere messaggi subliminali, idonei, magari, a sottolineare il non perfetto allineamento della magistratura sulla fattispecie incriminatrice di cui all'articolo 416-bis del codice penale, contestata a Carminati e co. Del resto, su questo la sentenza della Cassazione arriverà fra meno di un mese».

Dai blog