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«Malavita più feroce per colpa della crisi»

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Intervista Il pm della Dda Carlo La Speranza «I soldi sono pochi e le bande si fanno la guerra»

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Piccolidelinquenti dal grilletto facile. Reati predatori in aumento. Una Capitale sempre più violenta, feroce, indifferente, che spinge il procuratore generale della Corte d'Appello a parlare di «Romanzo criminale» e il sindaco Alemanno a chiedere più collaborazione tra polizia, magistratura e politica per difendere la città «dal rischio di infiltrazioni della malavatita organizzata». Che sta succedendo? «Anche questi sono gli effetti della crisi - spiega Carlo Lasperanza, pm in forza alla Direzione distrettuale antimafia - Una crisi che ha le sue peculiari ricadute nel mondo del crimine». Quali? «La situazione induce alcune bande non collegate fra loro a una lotta spietata per il controllo del territorio. Se prima ce n'era per tutti, ora anche le entrate della malavita sono ridotte. E la mancanza di lavoro spinge un numero maggiore di persone a delinquere». E di mezzo c'è sempre la droga... «Infatti. Durante le attività d'indagine della Dda abbiamo scoperto che molti prendono a credito partite di cocaina e in seguito non sono in grado di saldare il debito. Quindi, da un lato per riavere i soldi, dall'altro per dare un esempio che scoraggi gli altri, vengono puniti con durezza. E attentati ideati come gambizzazioni si trasformano in omicidi». Ci sono troppe armi in giro. Perché? «Molti furti in appartamento hanno come obiettivo le armi. Sono colpi mirati, ad esempio in casa di una guardia giurata dove sai già che troverai una pistola. Per quanto riguarda le mafie, invece, è in crescita l'importazione di armi dai Paesi dell'Est. Inoltre, la pistola è diventata uno status symbol...». Cioè? «È un segno di distinzione del piccolo criminale di successo e dà potere nell'ambito del gruppo. Chi prima si limitava al coltello, oggi in tasca ha una semiautomatica. Sono quasi scomparse le aggressioni a mano disarmata e con armi da taglio. Non si dà più la punzecchiata ma si sparano due colpi alle gambe. Questo rappresenta un pericolo per la comunità e crea più allarme sociale. Con il coltello si colpiva solo chi si voleva colpire. Una pallottola vagante, invece, può raggiungere anche una vittima innocente». Perché il fenomeno sembra più diffuso a Roma che in altre città italiane o europee? «La criminalità aumenta in tutti i Paesi in cui si abbassa la soglia del benessere. Ma c'è la ghettizzazione, ci sono baraccopoli, favelas, banlieue. Roma è una città più aperta, senza muri divisori». La sempreverde critica rivolta a voi magistrati è che i malviventi arrestati tornano troppo presto liberi. Come mai accade? «Il paradosso italiano è che nel momento in cui la prova sta diventando più certa, l'imputato esce dal carcere. La condanna definitiva arriva anni dopo l'arresto e non si può tenere in prigione una persona tutto questo tempo. Se l'ultima condanna arrivasse entro un anno, cioè se l'apparato giudiziario fosse più veloce, non ci sarebbe il problema. Negli Stati Uniti ci vogliono circa due mesi, il tempo di una nostra direttissima». La soluzione? «Adeguarsi alle normative degli altri Stati dell'Unione europea, agendo su gradi di giudizio e numero di giudici, motivazioni della sentenza e tempi di prescrizione del reato». Partiamo dal primo punto. «Semplice. Tre gradi sono troppi. In molti Paesi non è così». Anche i magistrati che lavorano su un procedimento sono troppi? «Negli Usa ci sono il pubblico accusatore e il giudice. Da noi per reati che vanno dalla strage alla rapina si mobilitano diciotto toghe». Diciotto? «Il pm, il giudice per le indagini preliminari, il tribunale del Riesame, che di giudici ne ha tre, il giudice per l'udienza preliminare, i tre del collegio di primo grado, i tre dell'appello, i cinque della Cassazione e il giudice di sorveglianza». Parliamo delle motivazioni. «In Italia sono veri e propri tomi di centinia di pagine e hai novanta giorni per depositarle. Ho visto motivazioni di magistrati spagnoli che si limitavano a cinque paginette stringate». E la prescrizione? Se è più breve dovrebbe ridurre la durata del procedimento? «Sì, ma stiamo parlando di criminali che tornano troppo presto in libertà. E poi è come se, appena hai finito di costruire una casa, te la demoliscono perché manca l'ultima tegola del tetto». Una fatica inutile... «È assurdo. Le faccio un altro esempio. Il reato di furto ha circa sette anni prima di essere prescritto. Partono le indagini, dopo due anni si trovano prove e colpevoli e in cinque anni devi affrontare tre gradi di giudizio. È probabile che non sia possibile arrivare alla fine prima che scatti la prescrizione». Quindi? «I tempi di prescrizione non dovrebbero partire da quando si è commesso il reato, ma da quando il pm avvia l'indagine. Altrimenti diventa una lotteria e si genera ingiustizia: nel tribunale più snello sei condannato, in quello più intasato hai una sorta di impunità da prescrizione. E così la legge non è mai uguale per tutti».

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