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Anche le montagne piangono

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Alcunepiù delle altre. L'acqua si fa largo tra le rocce, assorbe linfa dal calcare e si purifica. Sgretola e leviga, inarrestabile, per tornare alla luce del sole. Le gocce zampillano in rivoli fuori dalla roccia, scivolano sulle pareti, s'uniscono in fiotti, corrono lungo gallerie e nel buio si gettano nelle piscine sotterranee del Monte Nuria. Poi arriva l'uomo, accende una lampadina, e il ventre della montagna s'illumina del blu più intenso che la natura possa colorare. Ottantasei chilometri la separano da Roma. Ottantasei chilometri per compiere il miracolo che da 2mila anni permette ai romani di assaporare l'acqua più buona d'Europa. Oggi più di tre milioni di persone possono dissetarsi con le lacrime del Nuria, trasportate a valle dall'acquedotto del Peschiera. Una porta di ferro si apre alle falde della montagna e si accede a un reticolo di cunicoli che affondano nella roccia per due chilometri. I tecnici della centrale consigliano di indossare caschi di protezione. Dopo pochi metri il soffitto del tunnel s'abbassa. Bisogna camminare con la testa china. Obbligatorio calzare copri-suola di plastica per non contaminare l'area. Le volte delle gallerie sono smaltate di bianco e imperlate di gocce. Mini stalattiti scendono rigide dal soffitto. Le luci al neon le fanno risplendere. Più ci si addentra nella montagna, più la temperatura s'abbassa e più sale il suono dell'acqua. Le galosce scivolano sulla passerella di cemento. Sotto, in direzione opposta, un torrente cristallino scorre verso il collettore principale. Si procede in leggera pendenza, fino alla fine del tunnel. Dietro a una curva la passerella s'interrompe davanti a una parete di roccia striata di calcare. La pietra trasuda acqua da tutti i pori, scivola e si raccoglie ribollendo in una pozza ai piedi della roccia. La montagna assorbe come una spugna la pioggia e la neve dei monti del Reatino. Un sistema di falde convoglia l'idrogeno e l'ossigeno in questo punto, a 400 metri sul livello del mare, a sette chilometri da Cittaducale, a poche centinaia di metri dalla via Salaria. L'obiettivo cerca di cogliere l'attimo in cui le gocce fanno capolino dalle pietre per scolpire in un'immagine la forma dell'acqua. Le galosce tornano sui loro passi. Ora si scende. Lungo il tunnel la portata aumenta. L'acqua filtra anche dalle pareti laterali in calcestruzzo. Alla base una serie di fori le permettono di unirsi al torrente. La sua corsa termina con un salto in una vasca di raccolta. La caverna è profonda una ventina di metri, larga quindici. L'acqua è di un blu intenso. Il fondo della vasca è ben visibile a più di dieci metri di profondità. Viene voglia di tuffarsi, e di bere. Ma i 9 gradi costanti di temperatura e l'incontaminata purezza lo vietano: guardare, non toccare. L'acqua esce dalla grotta e riprende il suo viaggio. Il torrente si unisce ai suoi fratelli nella condotta principale. Nel punto di congiunzione, dove un computer ne analizza per la prima volta il contenuto chimico, un cartello rosso recita: «Ottantasei chilometri da Roma». Da qui il canale primario affida l'acqua a quattro rumorose macchine che la pompano e la immettono nell'acquedotto. Con una portata media di 9mila litri al secondo l'oro blu scende a valle. Accelera nel primo tratto, rallenta al cospetto del Tevere, e riprende la sua corsa fino ai bacini di raccolta della Città Eterna. Il miracolo dell'acqua è compiuto.

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