Il Coro del Teatro dell'Opera di Roma da ottobre è guidato da Roberto Gabbiani, il direttore di ensembles corali e musicologo toscano, che ha operato al Maggio Fiorentino, alla Scala di Milano con Riccardo Muti (1990-2002), all'Accademia di S.
Dopoil grande successo del «Moïse et Pharaon» inaugurale della stagione dell'Opera, in cui il duo Muti-Gabbiani ha trionfato, col bis della Preghiera degli Ebrei del IV atto, chiediamo al M° Gabbiani: Prevede dell'altro per il «Nabucco», che Riccardo Muti dirigerà nel prossimo marzo? «Dietro un successo c'è sempre tanto studio e lavoro. Nulla scende dal cielo. Ho sì eseguito il "Moïse" per la prima volta col M° Muti, ma avendo collaborato con lui dai tempi del Maggio Fiorentino, ne conosco a fondo il modo di fraseggiare, perciò l'intesa c'è stata subito. E mi trovo benissimo col Coro dell'Opera, perché è pieno di volontà di crescere». Lei, Maestro, ha diretto voci palestriniane all'Accademia di S. Cecilia contribuendo a formarle, e adesso opera sulle voci liriche: c'è differenza? «Forti sono le distanze dei linguaggi, anche con i compositori contemporanei, presso i quali occorre la rarefazione del suono, la trasparenza, che per i cantanti lirici dalla voce impostata è uno sforzo raggiungere. Il loro habitat è l'Ottocento e parte del Settecento. Va aggiunto poi che al Coro dei teatri lirici è richiesto un compito ulteriore, non vocale ma drammaturgico, da parte dei registi: il melodramma è anche spettacolo ed essi ne fanno parte. Io amo entrambi questi mondi, però mi avvicino all'Opera con lo sguardo del sinfonico». Cosa pensa, Maestro, dei cori amatoriali diffusi in Italia, ma da taluni considerati di serie B? «Penso tutto il bene possibile: contribuiscono alla crescita e alla conoscenza musicale di base, così preziosa, e sono fonte di gioia, la "gioia di cantare insieme", magari con limiti vocali, ma con grandi frutti di benessere umano e sociale». Maestro Gabbiani, cosa desidera ancora dalla vita? «Sono stato fortunato. Ho diretto in tanti teatri, italiani e non: desidero seguitare a lavorare e a fare ricerca musicale, fino alla fine della mia esistenza». Pao. Par.