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I periti di Busco smontano l'accusa

Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, uccisa con 30 coltellate il 7 agosto 1990 a Roma a via Poma

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È una delle tre prove tecniche che sorreggono il castello accusatorio. Una pietra angolare che ieri, nell'aula-bunker di Rebibbia dove si celebra il processo per l'omicidio di via Poma, è sembrata franare sotto il peso delle relazioni peritali dei consulenti della difesa. Parliamo del presunto morso sul capezzolo sinistro di Simonetta Cesaroni. Per il pm Ilaria Calò è stato Raniero Busco a lasciare quel segno. E lo ha fatto prima di assassinarla. Per Emilio Nuzzolese, odontoiatra forense di Bari, la ferita non corrisponde all'arcata dentaria dell'imputato. E potrebbe addirittura essere il risultato di un gioco erotico con il fermacapelli della vittima, trovato accanto al cadavere il 7 agosto del '90. Questo «perchè esiste una compatibilità di misure tra i denti di plastica dell'oggetto e le lesioni sul capezzolo». Ma l'udienza di ieri è servita agli esperti nominati da Paolo Loria, legale dell'ex fidanzato di Simona, per confutare anche gli altri due esami utilizzati dall'accusa: il sangue sequestrato sulla porta dell'ufficio del direttore dell'Aiag e la traccia biologica rilevata sul corpetto e sul reggiseno della poveretta, che non è detto sia di saliva. Un dettaglio fondamentale, quest'ultimo, perché la sostanza estratta dai due indumenti condurrebbe a Busco e sarebbe collegata al famigerato morso. Se quel materiale non è saliva, salta anche questo collegamento. Tra l'altro, resta da dimostrare che l'imputato (Raniero aveva visto Simonetta il sabato e poi anche il lunedì precedenti a quel maledetto martedì pomeriggio) abbia lasciato la sua «firma» biologica durante l'assassinio. Tesi che appariva già difficile da sostenere in dibattimento, perché sarebbe necessaria la certezza che la vittima si fosse cambiata la biancheria intima indossata 24 ore prima. Ma torniamo alle complesse relazioni dei periti. Giuseppe Novelli ed Emiliano Giardina, rispettivamente preside della facoltà di Medicina e genetista a Tor Vergata, hanno criticato pesantemente il lavoro del generale Garofalo, ex capo del Ris di Parma e consulente della Procura. Interpellati da Loria, hanno sottolineato che nella «catena di custodia» dei reperti «non sono stati rispettati gli standard internazionali. Calzini, reggipetto di pizzo e corpetto della vittima sono stati conservati per 17 anni nell'obitorio della Sapienza in un'unica busta, a contatto fra loro e quindi soggetti a possibili contaminazioni. Il test sulla saliva, poi, è risultato negativo. Perciò, «non è possibile accertare che si tratti di saliva». Anche per quanto riguarda il «baffo» di sangue sulla porta non è possibile escludere la contaminazione. In ogni caso, «la traccia non è interpretabile» e «l'esame è inconcludente». Il medico legale Giancarlo Umani Ronchi, professore emerito alla Sapienza, ha rimarcato «lacune molto gravi in sede di sopralluogo, come il mancato esame della temperatura esterna comparata a quella del cadavere (per consentire di stabilire l'ora del decesso, che così resta molto vaga) e l'incompletezza delle analisi tossicologiche. E ha spiegato che il morso non può essere stato inferto nell'immediatezza del delitto, perché la crosticina siero-ematica si forma dopo 4-5 ore. Pure in questa occasione, ha detto Umani Ronchi, gli esami sono stati poco approfonditi. Nuzzolese, infine, ha escluso l'esistenza di «compatibilità-corrispondenza fra la lesione e la dentatura dell'imputato». L'appuntamento è per il 20 ottobre. Quel giorno, tra gli altri, sul banco dei testimoni salirà Raniero Busco.

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