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Il 'testa a testa' con Irene Pivetti: "Sarò assolta perché innocente". E sulla giustizia...

Edoardo Romagnoli
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Dallo scranno più alto di Montecitorio alla caduta in cui ha perso tutto dopo una condanna a quattro anni per evasione fiscale e autoriciclaggio. Irene Pivetti si racconta in una lunga intervista in cui ripercorre a grandi tappe la sua esperienza politica e imprenditoriale. Oggi è in attesa dell’appello del suo processo e ribadisce la sua innocenza.

Dopo la laurea alla Cattolica lavora come consulente editoriale. Poi nel 1990 diventa responsabile della Consulta Cattolica della Lega lombarda. Cosa la convinse a fare politica?
«Pensavo che la mia vita sarebbero stati i libri per sempre, manoscritti antichi, in particolare. Ma grandi cambiamenti stavano accadendo in Italia in quegli anni, era la fine degli anni ’80, si profetizzava l’avvento del post politico. E quando arrivò, aveva la faccia della Lega lombarda. Io non ero leghista all’epoca, ma non potevo sopportare che un fenomeno di massa così importante venisse liquidato dai grandi giornali senza capirlo».

Come entrò in contatto con il partito?
«Scrissi un breve saggio di analisi della Lega, lo mandai ad Umberto Bossi, mi invitò ad incontrarlo presso la sede di allora. Un minuscolo appartamento in piazza Massari a Milano, e mi propose di occuparmi dei cattolici della Lega. Prendiamo tanti voti cattolici, mi disse, dobbiamo capire come parlare con loro. È quasi impossibile capire oggi che cosa questo significasse allora: l’Italia aveva da sempre un grande partito cristiano al governo, che era considerato da molti la sola scelta possibile. Ci vollero anni per dimostrare che il partito unico dei cattolici era stato superato dai fatti. In realtà, ci pensò la Dc a suicidarsi poco dopo, trasformandosi in Partito popolare, con Martinazzoli».

Che ricordo ha di Umberto Bossi?
«Umberto è sempre stato un genio politico, con sprazzi di follia. I suoi aspetti più beceri, che tanto scandalizzavano i benpensanti, erano molto utili in termini di comunicazione, perché portavano ad una costante sottovalutazione del suo potenziale. E gli hanno permesso di avviare da solo quella grande rivoluzione popolare che poi, saldandosi con la rivoluzione liberale di Berlusconi, avrebbe permesso una seconda, grande liberazione dell’Italia. Ma purtroppo fu proprio Bossi a interromperla, facendo cadere il Berlusconi 1 dopo soli otto mesi».

Lei però venne espulsa dalla Lega perché contraria alla secessione padana. Oggi che ne pensa dalla riforma dell’autonomia?
«L’autonomia è una cosa positiva, e ancor di più lo sarebbe stato il federalismo, su cui la Lega era nata ed era cresciuta. La secessione era una cosa diversa, significava spaccare il Paese, e questo non lo volevo allora e non lo vorrei mai nemmeno adesso».

Quelli erano anni complessi per la credibilità della politica. Il 17 febbraio 1992 Antonio Di Pietro chiede e ottiene l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Cosa ricorda di quei giorni?
«Voglio ricordare che l’inchiesta di Mani Pulite, che partì formalmente dalle dichiarazioni di Mario Chiesa, aspettò il risultato delle elezioni per partire veramente. Controllate le date. Se la Lega non avesse profondamente scombinato il panorama politico, dimostrando che il consenso popolare si stava spostando, non sarebbe successo niente».

Nel 1994 diventa la seconda donna presidente della Camera, a 31 anni fu anche la più giovane a ricoprire quel ruolo. Mi racconta l’emozione che provò?
«Sentivo la responsabilità, non solo mia, di tutti noi nuova gente dentro le istituzioni, di cambiare le cose, per portare più libertà, molta più libertà. E l’occasione era reale. Quello che non avevamo capito era che destabilizzare un sistema senza completare l’affermazione del nuovo lasciava la nostra fame di libertà del tutto indifesa, esposta all’aggressione di poteri molto più astuti della democrazia, che da quel momento utilizzarono le parole del cambiamento come leva per una destabilizzazione permanente».

Ce l’ha un aneddoto che si ricorda successo dentro l’aula?
«Molti. La temperatura emotiva era spesso molto alta, in particolare quando si parlava della Rai. Qualcuno ricorderà che un paio di volte ci furono anche botte in aula, ed era sempre per quel motivo».

La sua strada e quella di Giorgia Meloni si sono incrociate nel 2016 quando lei si candidò alle amministrative di Roma nella lista Noi con Salvini a sostegno della candidatura dell’attuale premier. Che impressione ebbe?
«Una donna in gamba, intelligente, determinata, cosa che infatti è. Ma quelle elezioni Berlusconi le volle perdere, lasciando il campo ai Cinque Stelle, per non causare una Caporetto alla sinistra di governo. Voleva mantenere rapporti distesi con Renzi, per altri motivi».

Quando Meloni è diventata premier “sfondando il soffitto di cristallo” che cosa ha pensato?
«Non mi ha sorpreso, mi ha fatto piacere che fosse una donna che se l’era guadagnato sul campo, quel posto. Se posso permettermi, gliel’avevamo un po’ assottigliato noi, quel soffitto, donne che siamo venute prima di lei, come a noi lo hanno assottigliato quelle che ci hanno preceduto, di qualunque parte politica fossero, o fossimo. Avere donne nei ruoli apicali è una questione culturale, non politica».

Mi dice una cosa che le piace di questo governo e una cosa che non le è piaciuta?
«Mi piace la grande attenzione all’economia reale, rilanciando per quanto possibile le imprese e l’occupazione. Non mi è piaciuto il supporto acritico a Zelensky senza tener conto delle contraddizioni di quel regime, che infatti ora cominciano a mostrarsi, con i gravi casi di corruzione che emergono».

Vedrebbe bene Meloni al Quirinale?
«Perché no. Ma non subito, al momento ci serve a Palazzo Chigi. Col premierato, poi, il Presidente della Repubblica diventa ornamentale. Non credo che la Meloni voglia già pensionarsi».

Chi è il politico che più la convince oggi?
«Risposta impossibile. Sono costretta a rispondere per categorie: chiunque non abbia paura di fare scelte impopolari, mettendoci la faccia, e abbia il coraggio di trascurare i social per scendere a parlare, e ad ascoltare, in piazza».

Lei è da sempre un’europeista convinta, nel 2018 ha fondato anche un partito “Italia Madre” che aveva proprio nell’europeismo uno dei valori fondanti. Come vede il ruolo dell’Unione europea nello scacchiere internazionale? Penso ai negoziati fra Russia e Ucraina in cui l’Ue non ha ancora stabilito chi debba sedere al tavolo delle trattative dopo 3 anni.
«L’Europa oggi è in stato vegetativo. Non ha peso politico perché non ha pensiero politico, e le sue istituzioni non rappresentano nessuno, se non qualche potere economico. È un dolore, ma anche una vergogna, vederla ridotta così, serva della sua stessa ipocrisia. Arrivo a dire: meno male che non ha, ad esempio, una difesa comune, finché non ha una testa pensante sulle spalle, che possa liberamente decidere che cosa farne, nell’interesse degli europei».

Referendum sulla giustizia. Lei è per il Sì o per il No? Crede che la separazione delle carriere possa portare a un’invasione di campo dell’esecutivo?
«Sono per il Sì per dare almeno un segnale che la riforma della giustizia non può essere un tabù. Ma il problema mi pare preceda di molto la politicizzazione. Il problema vero è fare riguadagnare ai magistrati il senso pieno del loro servizio allo Stato, la nobiltà vera del loro ruolo. Basandomi sui fatti di cronaca a tutti noti, a me pare che fra loro, insieme a tante persone serie, ce ne siano un certo numero che finiscono per politicizzarsi, o per prendere decisioni incomprensibili, per motivi sproporzionatamente piccoli. Da questo punto di vista, l’esecutivo ha poco da invadere».

Il pm Giovanni Tarzia ha chiesto nei suoi confronti una condanna di 4 anni per evasione fiscale e autoriciclaggio. Questo mese si terrà l’appello. Lei si è detta pronta al carcere. Ci racconta cosa è successo?
«L’ho detto in un’intervista rispondendo ad una domanda specifica. Ma non accadrà, perché sono innocente, e nonostante tutto prima o poi dovranno riconoscerlo. Cosa è successo è presto detto: assolutamente niente, ho svolto per diversi anni una normalissima attività di impresa, promuovendo imprese italiane sul mercato cinese. Ho pagato le tasse fino all’ultimo euro, come dimostrano le mie dichiarazioni dei redditi e i miei libri contabili. Ma nelle carte del processo c’è scritto che “i libri contabili delle società non sono oggetto di questa indagine”. E allora che cosa ho evaso?».

In varie interviste ha raccontato anche delle sue difficoltà economiche a seguito della condanna. Da ex presidente della Camera da un giorno all’altro si è ritrovata a lavorare per una cooperativa. È riuscita a trarre qualcosa di positivo da quell’esperienza?
«Certo che sì. Affetto. Solidarietà umana. E comunque lavorare è una cosa bellissima. Il momento più difficile è all’inizio, quando sei solo come un cane, calunniato insieme ai tuoi familiari, e non capisci nemmeno che cosa sta succedendo. Però niente nella nostra vita è privo di senso. Il Signore permette questa lunga prova per farmi più forte. E mi insegna ad amare di più, e meglio».

Oggi di che cosa si occupa?
«Sempre dei rapporti di amicizia fra l’Europa e la Cina, ma non faccio più impresa (ovviamente: con che mezzi?). Iniziative culturali, sia laggiù, che qui».

Guardandosi indietro sceglierebbe di nuovo la carriera politica? O farebbe altro?
«La sceglierei mille volte, è senz’altro una delle attività più nobili ed utili dello spirito umano. Senza voler volare troppo alto: fare scelte pubbliche che aiutino le persone a ridurre i problemi, a vivere un po’ meglio. Ma, come sappiamo, per fare le cose veramente semplici ci vuole l’esperienza di una vita».

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