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Pd, parte il processo a Schlein. Sotto accusa tutti i fedelissimi: “Via gli yes-man o crolla tutto”

Foto: Ansa

Aldo Rosati
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La quiete dopo la tempesta: bocche cucite, sguardi persi nel vuoto, e la sensazione che anche stavolta sia finita prima ancora di cominciare. Effetti collaterali della batosta nelle Marche, dove l’entusiasmo era partito a mille, con tanto di collaudo per un nuovo messaggio insistente – «mandiamo a casa Giorgia Meloni» – e si è concluso con il più classico dei flop. Al Nazareno, però, si innova anche il rito del post-sconfitta: archiviate le analisi, vietata l’autocritica, smentito il teorema della vigilia. Nessuno parla. È il tempo della liturgia: ringraziamenti di prammatica all’ennesima vittima immolata sull’altare del campo largo – Matteo Ricci – e un augurio che suona più come formula di formale cortesia: «Ci riproveremo». Il silenzio di queste ore ha anche un’altra spiegazione: tutto il gruppo dirigente dem ha consigliato ad Elly Schlein di andare allegramente a sbattere. Una lunga lista di improvvidi consiglieri: dall’esperto capogruppo in Senato Francesco Boccia al golden boy che passa le giornate in televisione, Marco Furfaro. E poi ancora il «sinistrissimo» Sandro Ruotolo, il tuttofare Igor Taruffi, l’amico ritrovato Stefano Bonaccini, le fedelissime Chiara Braga e Marta Bonafoni. In pratica il coro che ha accompagnato la segretaria ad una resa programmata alle condizioni imposte da Giuseppe Conte. Nessun dibattito, nessuna divergenza.

 

 

Un cliché rispettato davanti alle macerie fumanti delle urne marchigiane, da Igor Taruffi, responsabile dell’organizzazione. «Andiamo bene così, la strada è quella giusta», ha consigliato il tuttofare di Elly. Nessun dubbio, le sconfitte non contano (dieci quelle raccolte da Pd-M5S insieme, contro tre sole vittorie, secondo You Trend). Eppure il voto marchigiano non è un inciampo qualsiasi. È un vero e proprio crollo, per di più in una regione che, in tempi non troppo lontani, alla sinistra qualche soddisfazione l’aveva pur data. L’eurodeputato del campo largo ha perso ovunque. Anche a casa sua, nella Provincia di Pesaro, la vittoria è scattata solo nel capoluogo, ma di misura. Peggio ancora va alla coalizione. Cinque anni fa, Pd e M5S, correndo divisi, presero più voti di quelli registrati domenica (45,9%, un punto e mezzo in più). Insomma che disastro. La storia si ripete. A giugno, il Pd aveva puntato tutto sui referendum della Cgil per abrogare le leggi sul lavoro dell’era Renzi. Elly Schlein ci aveva messo la faccia chiedendo l’abiura al suo partito, che quelle leggi le aveva entusiasticamente approvate in Parlamento. Morale, quorum lontano anni luce e nessun accenno di autocritica. Anche in quel caso i maggiorenti coprirono a dovere la numero uno: «Dovevamo farlo, avanti così». La rimozione targata Nazareno.

 

 

Materiale (ampio) per chiedere una correzione di rotta, quella che proporrà la minoranza (Picierno, Quartapelle, Guerini, Gori) il 24 ottobre a Milano. Ed un consiglio non troppo amichevole ad Elly Schlein: «Liberati di qualche yes man, ed apri a un confronto vero prima delle politiche». La ricetta dei riformisti suona più o meno così: se il matrimonio con Giuseppe Conte deve essere obbligato, scegliamo noi i temi, evitando di fare tutte le volte da zerbini. Spiega la vicepresidente del Parlamento Europeo Pina Picierno: «È sempre più chiaro che polarizzare non serve al campo progressista. L’unità della coalizione è indispensabile, ma da sola non basta». Insomma un bel rompicapo.

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