la penisola islamica
Saman Abbas, altri casi nella rossa Emilia: donne schiave della sharia
Vi ricordate il caso di Saman Abbas? Rischiamo che, senza un profondo intervento per eradicare il fondamentalismo islamico, possano essercene altri in Italia. Lei era la diciottenne pachistana ammazzata dalla sua stessa famiglia nella notte tra il 30 aprile e il1° maggio 2021 nelle campagne di Novellara (Reggio Emilia) dove viveva. Era stata uccisa per essersi opposta a un matrimonio combinato con un cugino in patria, per voler vivere all'occidentale e per essersi fidanzato con un altro ragazzo inviso alla famiglia. A puntare il dito contro tutti e cinque i familiari era stato Alì Haider, il fratello minore di Saman, il grande testimone del processo nel quale ha raccontato il piano barbaro della famiglia per ucciderla. Ma perché ne parliamo proprio oggi? Perché esattamente a Reggio Emilia, in pochi giorni, si sono verificati due episodi che ci ricordano quelle storia orrenda. Due storie di donne che hanno tentato di cambiare la loro vita, di andare contro i dettami imposti dal radicalismo islamico, di ribellarsi alla legge suprema della sharia. Ma ce ne sono molte altre che per terrore non denunciano. Perché sì, purtroppo, ribellarsi porta a questo.
E, infatti, sono state picchiate, prese a calci e pugni, trattate nel peggiore dei modi perché hanno provato a dire la loro.
A Modena una ragazza siriana di 23 anni è arrivata a denunciare i suoi genitori dopo le ripetute violenze domestiche, dopo botte, minacce, restrizioni andate avanti anni solo peril suo carattere «ribelle», solo perché chiedeva un minimo di libertà, perché rifiutava di sottostare alla Sharia. Sarebbe colpevole, secondo la famiglia, di aver «preteso» di incontrare amici e persone di sesso maschile, un fatto ritenuto atroce e incomprensibile da molti islamici. La stessa cosa è accaduto anche a Cesena due anni e mezzo fa a una ragazzina che all’epoca dei fatti aveva solo 14 anni e ora si trova in una comunità protetta: il padre, del Bangladesh, è ora sotto processo «accusato per abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti». Anche lei, chiedeva di esistere, di scegliere di vivere all’occidentale, di integrarsi con i nostri costumi. E poi c’è anche il recentissimo caso di Massa Lombarda, nel ravennate, dove una donna di origini algerine, 32 anni e residente in Italia da quando ne aveva 7, è stata picchiata in pieno centro da alcuni uomini di origine araba, davanti alla figlia minorenne, perché colpevole di essere troppo integrata e di non indossare il velo.
Sono solo gli ultimissimi esempi di un fenomeno di notevoli dimensioni, che rimane per lo più nascosto non solo per paura, impotenza o sottomissione delle donne islamiche, ma anche e soprattutto per l’irresponsabilità di chi non vuol vedere e capire.
La passeggiata di questa donna si è trasformata in un trauma a vita e lei ora vive nel terrore di nuove aggressioni e di ritorsioni: «Ha iniziato a offendermi e a chiamarmi “puttana” in arabo, per poi sputare colpendo mia figlia. Io non ci ho più visto e ho ricambiato lo sputo». Ma il fatto che lei abbia reagito ha provocato una furia incredibile: «Mi ha dato un calcio fortissimo in mezzo alle gambe, causandomi un dolore atroce. Quando ho minacciato di chiamare i Carabinieri mi ha preso il telefono e lo ha scagliato per terra, per poi tirarmi il primo pugno che mi ha colpito l'orecchio, dal quale oggi ancora non sento, e la mandibola, facendomi sputare sangue. Ha continuato a colpirmi con altri pugni e una testata, il tutto davanti a mia figlia che urlava terrorizzata. Tutto questo è successo solo perché io sono molto integrata con gli italiani: questi uomini, quando vedono una donna araba occidentalizzata e senza il velo, hanno paura che altre possano imitarla», ha raccontato a Ravenna Today. Poi il terrore di uscire di casa: «Due giorni fa il mio aggressore era in piazza, mi ha chiamata un'amica per dirmi di non uscire. Dei suoi amici mi hanno anche offerto dei soldi per spingermi a ritirare la denuncia. Ma io voglio solo che venga fatta giustizia, perché non dormo più, ho il terrore».
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Storie agghiaccianti che nulla hanno a che fare con i bei discorsi che sentiamo sull’integrazione, sull’assenza di estremismi, sulla centralità della donna contro il patriarcato dell'uomo bianco occidentale. Ma le donne di altre nazionalità non contano nulla? Di loro non ci occupiamo? C’è anche un minimo comune denominatore in queste vicende: tutte sono avvenute in Emilia-Romagna, regione in cui anche le bambine piccole indossano il velo, come testimonia il caso di una piccola di 14 anni a cui hanno imposto il velo, impedendole di proseguire gli studi, di iscriversi alle scuole superiori, di guardare la televisione, di indossare abiti occidentali, di avere il telefonino e amicizie maschili, persino di praticare attività sportive, minacciandola pure di riportarla per sempre in Pakistan se non avesse accettato di sottomettersi a queste decisioni. I niqab sono sempre più presenti, molte le donne che lo indossano contro la loro volontà e a volte come escamotage viene utilizzata la mascherina anti covid per non far vedere le altre parti del loro viso.
L’intento però è il medesimo: non mostrarsi per non essere oggetto del desiderio maschile. Sguardi che non possono incrociarsi, donne barricate in casa cui chiudono anche le persiane. Diritti negati. Si dicono preoccupati Silvia Sardone, vicesegretario della Lega e Jacopo Morrone, segretario Lega Romagna: «Casi che rilanciano, ancora una volta, il tema delle donne sottomesse in nome di Allah. Tre episodi di inaudita gravità che si sommano alla tragedia di Saman, tutti in Emilia-Romagna. Nella regione rossa che tanto si vanta del suo modello di integrazione vediamo invece un clamoroso fallimento. Purtroppo, in molti chiudono gli occhi su questavisione profondamente oppressiva delle donne che persiste in molte comunità islamiche. Dobbiamo invece difendere, proteggere e ascoltare donne e ragazze che chiedono solo di essere libere. Il silenzio di sinistra e femministe è indecente ed equivale a una forma di complicità».