
Pd, il co-fondatore getta la spugna: “Partito non è all'altezza di essere pilastro del centrosinistra”

Enrico Morando, co-fondatore del Pd, viceministro all’Economia e finanze nei governi Renzi e Gentiloni, è la "mente" di LibertàEguale, l’area dei riformisti del Pd – qualcuno anche esterno – che si è riunita la settimana scorsa a Orvieto, dando il via a una serie di prese di posizioni forti verso la leadership di Elly Schlein. Come quella espressa da Dario Franceschini venerdì, che ha aperto uno squarcio nel Pd.
È trascorso qualche giorno dall’appuntamento di LibertàEguale a Orvieto, e non invano. Sembra che anzi quell’incontro abbia suonato una sveglia, abbia scosso dal torpore il Pd...
«Direi di sì. Siamo riusciti, mi sembra, a riproporre il tema della credibilità di governo del centrosinistra. Il Pd ha realizzato un recupero di consensi elettorali, rispetto alle ultime politiche. Bene. Ma rispetto alla stagione in cui sembravano poterci essere tre poli, con i 5 Stelle nel mezzo, dopo le Europee siamo tornati nettamente ai soli due poli. All’interno dei due poli ci sono due partiti che hanno un ruolo preminente, dal punto di vista politico ed elettorale».
Una volta si sarebbe detto egemone. Il partito-guida.
«Egemone, esatto. Nel centrodestra, il partito a vocazione maggioritaria è Fratelli d’Italia. Si è dato un profilo, una leadership, una caratterizzazione programmatica e una collocazione internazionale che sono compatibili con la sua funzione di asse di governo del centrodestra. E ne va dato atto a Giorgia Meloni. Ha fatto un percorso che conferma una costante del centrodestra, da sempre caratterizzato da un partito – a rotazione – a vocazione maggioritaria. Se il bipolarismo sembrava superabile, ora è chiaro come sia uno schema imprescindibile».
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E tornando al Pd, quale riflessione si apre adesso?
«Del centrosinistra non si può prescindere dalla funzione del Partito Democratico. Ora la domanda che ci poniamo è: il profilo ideale, programmatico, internazionale del Pd è all’altezza di diventare il pilastro del centrosinistra ? Da Orvieto abbiamo detto che la risposta è no.
Questo Pd non è all’altezza».
E quindi va messa in discussione la leadership di Elly Schlein?
«Bisogna lavorare sul programma e sul posizionamento internazionale. Bisogna dire, per esempio, che sul Jobs act la nostra posizione non coincide con quella di Landini. Fare chiarezza è nell’interesse di tutti i riformisti del centrosinistra, al di là del Pd. Ed è interesse di tutti i riformisti che vogliano far parte di una coalizione di centrosinistra credibile per il governo che nel Pd si renda compatibile con una posizione di governo».
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E Dario Franceschini, quando parla di una coalizione aperta, a geometria variabile, non predeterminata?
«Se non si risolve il problema della linea programmatica del Pd, la credibilità non c’è. Quale che sia la legge elettorale. E non puoi spacciare per credibilità di governo una eventuale manovretta elettorale per presentare una coalizione finta, mezza da una parte e mezza dall’altra. Che nella realtà non c’è ma fa finta di esserci. Perché questo, in sostanza, è quel che propone Franceschini».
Quando dice che sui candidati di collegio, per la quota maggioritaria, ci si potrebbe mettere d’accordo, gioca d’azzardo?
«C’è un problema evidente anche di forma. I candidati di collegio uninominale, che dovrebbero essere comuni, devono avere un collegamento formale. Formalizzato, con una coalizione. E se questo collegamento non è dato da un programma, che credibilità hanno?
Non si bypassa il problema attraverso operazioni di maquillage elettorale. Si deve affrontare a viso aperto un confronto sulla linea politica, sul programma, sul profilo ideale del Pd. Questo è il nodo».
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