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Conte bifronte... tu vuo' fa' il democristiano. La virata ‘ribellista' a sinistra non paga più

Pietro De Leo
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Esistono un Conte 1 e un Conte 2. No, non si tratta solo dei governi. Ma di quelle sfumature politico-culturali che il leader del M5S ha assunto durante il suo percorso pubblico. È il segno dei tempi di grande volubilità politica, sì, ma anche l’insidiosità del personaggio. Che partì democristiano e si riscoprì una sorta di succursale italica di Melenchon. Che possa far marcia indietro, poi, chissà. In politica di realismo si fa virtù, e con un Pd che ha del tutto perduto la costola della tradizione del centrosinistra un salto felino è possibile, per quanto arduo. E ci riporterebbe, appunto, al Conte delle origini. Indicato presidente del Consiglio da un partito ribellista e post ideologico come il M5S non si risparmiò, nella prima fase del suo governo, di rivendicare la sua formazione cattolica, provenienza Collegio Villa Nazareth di Roma che lui, fuori sede pugliese, aveva frequentato.

 

 

Ai tempi si scrisse della "crème" che si affacciò tra quelle mura, per istruire gli allievi lì dimoranti con auguste prolusioni, da Scalfaro a Prodi. E del Cardinal Achille Silvestrini, a lungo presidente del Collegio e considerato mentore di Conte. Ma l’attuale leader pentastellato si spinse più in là. Tirando fuori dal taschino della giacca, in tv con Bruno Vespa, un santino di Padre Pio. E qui si abbandonò al "latinorum", citando la "scrutatio cordis" del Santo, la capacità di guardare attraverso le anime. E chissà quanto per strategia casalinesca chissà quanto per convinzione, abbandonò se stesso allo storytelling. Sfruttando alcune connessioni biografiche felici: pugliese, giurista d’università politico. Uso ad arzigogoli verbali spesso astrusi e inafferrabili. Ecco che affermare di ispirarsi ad Aldo Moro venne quasi spontaneo. Così come farsi vedere alla Fondazione Fiorentino Sullo, officiante Gianfranco Rotondi, ad Avellino, terra del fu princeps democristiano Ciriaco De Mita. Che gettava acqua sugli entusiasmi, aborriva i paragoni tra l’Avvocato del popolo e Moro («Moro merita più rispetto», diceva) e respingeva qualsiasi patente di democristianeria per il premier gialloverde. Non ha fatto in tempo, De Mita, scomparso nella primavera del 2022, a scoprire il compimento della mutazione di Conte da moroteismo al populismo rosso.

 

 

Dal Santuario di San Giovanni Rotondo alle piazze estive del Sud, la giacca con pochet lasciata sul sedile dell’auto, a dire che se qualcuno avesse tolto il reddito di cittadinanza poteva scatenarsi una guerra civile. A sfidare Renzi: «Venga senza scorta in Sicilia a dire che non serve». Oppure a promettere ristrutturazioni delle case «gratuitamente» grazie al superbonus. Dalla responsabilità, criterio guida Dc, ad una bulimia sfrenata di rivendicazioni scassa-conti. E in questi tempi di alterne fortune, dove tocca trovare un sunto tra la "pancia" dell’elettorato e un senso per poter stare in coalizione con un Pd spostato a sinistra (unica precondizione per poter governare), l’oggi e lo ieri diventano un bivio.

 

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