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M5S, vaffa al campo largo. E ora Conte rischia di fare la fine di Di Maio

Pietro De Leo
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In politica di troppe suggestioni si rimane abbagliati. È capitato, nelle regionali in Abruzzo, anche a Giuseppe Conte. Il Movimento 5 Stelle esce dalle urne con un esito insoddisfacente, il 7% di lista, che ribalta dopo appena due settimane il sogno coltivato dopo la vittoria (risicatissima) in Sardegna con Alessandra Todde, candidata pentastellata alla presidenza. «Registriamo il risultato modesto, che ci spinge a lavorare con sempre più forza sul nostro progetto di radicamento dei territori, per convincere a impegnarsi e a partecipare soprattutto i troppi cittadini che non votano più», ha scritto Conte sui social. E ha aggiunto: «Dobbiamo farlo sulla scia della vittoria ottenuta in Sardegna, che ci ha portato qualche giorno fa ad eleggere la Prima Presidente di Regione M5S della storia». Dunque, l’Isola parrebbe rimanere il faro politico anche verso il modello di intesa con il Pd che pare essere un obiettivo verso cui continuare a guardare.

 

 

Il day after della partita abruzzese per il Movimento non risulta indolore. Il coordinatore regionale Gianluca Castaldi rimette il suo incarico nelle mani di Conte. Il suo parigrado dell’Umbria, Thomas De Luca, lancia però una sorta di altolà sulle alleanze. Il risultato abruzzese, dice, dimostra che «per vincere anche in Umbria la strada è sicuramente quella del "campo giusto" e non quella del cosiddetto "campo larghissimo"». E poi rimangono alcune scorie della notte elettorale, dove pare che tra i pentastellati non sia stata gradita l’assenza di esponenti Pd di primo piano al comitato elettorale di Luciano D’Amico. È difficile non vedere in controluce delle urne abruzzesi un contraccolpo dell’accordo per il «campo larghissimo». Nel 2019, esprimendo una candidatura unitaria alla presidenza della regione, il Movimento ottenne il 19,74%. Nel 2022, alle politiche (anche qui i pentastellati correvano da soli) si sono piazzati al 18,43%. Il salto verso il basso di 11 o addirittura 12 scalini. Nei suoi oltre quindici anni di storia, il Movimento 5 Stelle ha attraversato un’evoluzione, passando dal divieto assoluto di intese della fase Grillo-Casaleggio ad un progressivo smontaggio di questo dogma con le leadership di Luigi Di Maio e di Giuseppe Conte. Per quanto quest’ultimo abbia svolto in cammino con intermittenza. Chissà, magari Conte avrà in mente proprio lo spettro di Di Maio, che cominciò a subire, da Capo politico, lo sfarinamento del consenso stellare degli anni d’oro proprio con la partecipazione ad alleanze (circostanza che, però, allo stesso Conte, a quei tempi prof di diritto prestato alla politica, cambiò miracolosamente la vita).

 

 

Evidentemente, una quota di elettorato non trascurabile continua ad essere intransigente sul punto. Una circostanza di cui tener conto, insieme al fatto che gli elettori (di tutti i partiti) mal gradiscono scelte adottate con risultanza. Tradotto: la strada del rapporto con il Pd deve essere chiara e va spiegata. Esiste poi un’altra questione insita nell’esito abruzzese, e riguarda, stavolta, segnatamente la posizione di Giuseppe Conte nell’ipotetico «campo largo» nazionale. Il leader pentastellato, comprensibilmente, non ha mai riconosciuto la primazia di Elly Schlein nell’eventuale ruolo federativo dell’area. Su questo, i calcoli definitivi si faranno dopo le Europee, quando i cannocchiali delle prospettive cominceranno ad orientarsi verso le elezioni politiche. Tuttavia, in questo percorso ancora piuttosto lungo (c’è di mezzo un altro appuntamento regionale in Basilicata) ogni inciampo conta. Anche Elly Schlein è uscita sconfitta dall’Abruzzo, e con lei la retorica demagogica di un appuntamento-chiave per la liberazione dal governo Meloni. Ma almeno, il Pd si piazza come secondo partito e raggiunge il 20,29, in crescita rispetto alle scorse regionali (9 punti) e alle scorse politiche (4 punti) e quasi triplicando l’alleato-avversario. Non è un dato di poco conto.

 

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