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Pd e M5S riesumano Renzi e Speranza. La grande ammucchiata per l'Abruzzo

Pietro De Leo
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Per costruire un’alleanza politica serve partire dal quaderno e utilizzare la calcolatrice solo in un secondo momento. Il quaderno per metter giù i valori comuni in cui riconoscersi, le proposte su cui unirsi, focalizzare i blocchi sociali cui rivolgersi. E poi passare ai numeri, all’addendo potenziale del consenso. È una norma di sostanza che la sinistra italiana non pare assorbire, lanciata «nel tutti insieme purché si provi a vincere», agognando ad un effetto contagio che dalla Sardegna abbracci l’Abruzzo. Nell’Isola, il «campo largo» (senza il fu terzo polo) ha prevalso di scarsissima misura solo per mancanza di traino territoriale del candidato presidente del centrodestra, che invece ha sopravanzato la sinistra nella somma dei consensi dei partiti. Ora, dunque, il blocco progressista confida nell’effetto emulazione. Speranza animata attraverso suggestioni, tam tam mediatici, con l’obiettivo finale di attaccare la dimensione nazionale al traino di quella territoriale.
Anche con il ricorso a testimonial di zona, perché quelli nazionali rischiano di portare più detrimento che vantaggi.

Non per niente, il candidato presidente abruzzese Luciano D’Amico ha affermato di volere sul palco accanto a sé Alessandra Todde, vincitrice in Sardegna, fissando in una serie di interviste le regole d’ingaggio: Elly Schlein e Giuseppe Conte sono i benvenuti, purché a dovuta distanza. Stessa formula utilizzata dall’esponente pentastellata che ha vinto sull’Isola. Perché il piano nazionale è quel che è. Le distanze sull’agenda e sui principi tra Pd, Cinque Stelle, sinistra ed ex Terzo Polo sono la radiografia di quanto affidare ad una regione l’«effetto-volàno» per conquistare il governo del Paese sia operazione spericolata e forse autodistruttiva. Ci sperano, certo. Soprattutto il Pd di Elly Schlein, che deve pompare ossigeno alla sua leadership. Ci spererebbe anche Giuseppe Conte, a patto che ottenga lui la primazia dell’area. Un buon propulsore potrebbe essere la lontananza dalle plance del potere che è un’ottima calamita. Però sono divisi. Sulla politica estera come sull’economia, sulla difesa così come sulla giustizia. Man mano che ci si avvicina dalla sinistra al centro le posizioni si fanno incompatibili e addirittura conflittuali conflittuali. Per averne prova, Citofonare Carlo Calenda, che ha riempito Conte di contumelie dopo aver aperto ad intese territoriali, rammaricato del risultato di Renato Soru in Sardegna. O lo stesso Conte che ieri in Abruzzo ha risposto stizzito a un cronista: «Io Renzi non lo vedo, lei lo vede? Continuate a dire Renzi, Renzi, Renzi». Ma «non c’è Renzi qui».

Pensare che la logica dell’ammucchiata possa compiere il salto di specie dal livello locale a quello nazionale e mettere il Paese dinnanzi ad un’alternativa di governo è una convinzione figlia di una classe dirigente dalla memoria corta, che non ricorda gli incidenti passati e rimuove Marzo La data in cui si voto in Abruzzo La sfida è tra Marsilio del centrodestra e D’Amico del centrosinistra immediatamente quelli più recenti. La classe dirigente figlia del big bang politico-sociale post 2011: la grande crisi, l’antipolitica, il vento delle politiche woke. Una classe dirigente dal pensiero stretto, volto più che altro a solleticare gli appetiti dei propri follower-elettori: ambientalismo ideologico, femminismo demagogico, assistenzialismo patologico. Antifascismo preistorico. Senza dimenticare il debole collante (valido da 30 anni a sinistra) del nemico comune. Così, non stette in piedi al governo l’Unione di Prodi. Nata nel segno dell’antiberlusconismo mettendo insieme liberal filo atlantisti e post comunisti terzomondisti, giustizialisti e pannelliani, si sgretolò dopo neanche due anni. Non resse la maggioranza del Conte 2, montata alla rinfusa per evitare un ritorno alle urne del 2019 e dunque la premiership di Salvini. Già era pericolante dopo quattro mesi, la sua vita fu allungata dal Covid ma cadde a inizio 2021. Non starebbe in piedi neanche qualsiasi ibrido assemblato per fermare il centrodestra a trazione meloniana. Però c’è una controndicazione. Con la calcolatrice e basta non si governa, ma si può vincere. E la lezione sarda per il centrodestra restituisce un imperativo: primum non litigare.

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