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Giorgia Meloni diventa l'idolo dei trumpiani. L'analisi del Washington Post

Pietro De Leo
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Quella di domani è una data cerchiata di rosso negli Stati Uniti, visto che si terranno le elezioni di Mid Term che tracceranno il cammino, secondo i sondaggi assai complicato, della seconda parte di presidenza Biden. E probabilmente, segneranno una riscossa trumpiana che potrebbe trovare il culmine nell'annuncio di ricandidatura da parte del 45esimo Presidente.

Tuttavia, proiettando le questioni di casa nostra, quel che seguirà farà aumentare l'attenzione sulle sinergie politiche tra il mondo repubblicano d'oltreoceano e quel centrodestra a trazione Meloni che ha vinto le elezioni portando la leader di Fratelli d'Italia a Palazzo Chigi.

Proprio su questo, qualche giorno fa, si è concentrato un lungo articolo del Washington Post, mettendo in evidenza che Giorgia Meloni è «emersa come un punto di riferimento dei repubblicani "MAGA", che hanno interpretato la sua ascesa come un'affermazione dei propri valori e dei propri obiettivi». Detto per i digiuni di politica americana, Maga sta per «Make America Great Again», ed è il senso (oltreché lo slogan) del messaggio politico con cui Donald Trump ha vinto le elezioni nel 2016 scardinando le certezze liberal. Per meglio sottolineare il concetto, il «Post» rilancia alcune prese di posizione di esponenti di quest' area a proposito di una clip del 2019 in cui l'attuale Presidente del Consiglio criticava «l'attacco all'identità nazionale, religiosa, di genere, familiare». Taylor Greene, deputata della Georgia, ha commentato con un «ben detto». Ted Cruz (che sfidò Trump alle primarie nel 2016) ha reagito con un lapidario «spettacolare».

Nell'articolo, inoltre, si sottolineano alcuni retaggi comuni tra il confronto politico italiano ed americano: per esempio le accuse di razzismo e fascismo. «Stanno facendo la stessa cosa con me», ha affermato, parlando con Fox News, Kari Lane, candidata in Arizona. E sempre dalla Fox, rete diventata punto di riferimento dei trumpisti, si pronuncia Tucker Carlson, celebre anchorman e commentatore d'area. Giorgia Meloni, ha affermato, è stato «uno dei pochissimi politici disposto a dire la verità ad alta voce», e addirittura ha dedicato all'ascesa del presidente del consiglio molti minuti di una puntata del suo programma molto seguito.

In realtà, nell'analisi il Washington Post cade in una contraddizione, perché nell'attacco dell'articolo definisce Giorgia Meloni un capo di governo «far right», ossia di estrema destra, e poi più giù nel testo riconosce che, con l'avvicinarsi dell'appuntamento elettorale, «è riuscita a fare quel che i repubblicani avevano sperato e mai ottenuto da Trump: ha moderato».

Tuttavia, nella ricostruzione si ritrova la genesi di un legame con i repubblicani americani costruito via via nel tempo, suggellato dalla partecipazione al CPAC, ossia la «Conservative Political Action Conference», un appuntamento annuale molto importante per la costruzione della proposta politica. E sulla maturazione di questo percorso di sinergia aveva parlato proprio al Tempo, qualche mese fa, anche l'analista americano (molto competente anche di cose italiane) Edward Luttwak. Eravamo in piena estate, e la stampa italiana di sinistra rilanciava l'ipotesi di una preoccupazione negli Stati Uniti per chissà quale deriva filorussa di un eventuale governo Meloni. Luttwak, però, fugava queste ricostruzioni: «L'esperto del partito Repubblicano che ha conosciuto Giorgia Meloni in Florida, in occasione del CPAC di Orlando, Gordon Chang, ha studiato e osservato la sua leadership in modo molto approfondito. Riconoscendo come rappresenti una nuova generazione politica, che non ha nulla a che vedere con il fascismo e vuole mantenere l'Italia al fianco degli Stati Uniti, respingendo qualsiasi avvicinamento alla Cina e alla Russia».

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