i veleni della politica

Giustizia, il sì al referendum significa ripristinare lo Stato di diritto

Riccardo Mazzoni

L'operazione boicottaggio dei referendum sulla giustizia è in pieno svolgimento, complici prima la Consulta, che ha cassato quelli più popolari sulla responsabilità civile dei magistrati e sulla cannabis, e poi il governo Draghi, che nonostante il Covid tuttora diffuso ha ristretto l'election day alla sola giornata del 12 giugno, contraddicendo così la linea prudenziale tenuta in tutte le precedenti consultazioni dall'inizio della pandemia. Il muro eretto dalla ministra Lamorgese contro il prolungamento al lunedì, col sostegno dei ministri di Pd e Cinque Stelle è risultato invalicabile, ed è evidente che nel primo weekend di scuole chiuse per molte famiglie la voglia di mare avrà la meglio su quella di andare alle urne, soprattutto dove non si vota per le amministrative.

 

  

Il raggiungimento del quorum appare dunque, al momento, una missione quasi impossibile, nonostante la mobilitazione generale ordinata da Salvini alla Lega per i prossimi fine settimana. E qui si innesta una considerazione ancora più squisitamente politica che sta prendendo corpo nei retroscena di Palazzo: oltre al disincentivo per così dire istituzionale - Consulta e governo - alla partecipazione popolare, infatti, si starebbe riformando quella sorta di massa critica che ricorda la sindrome Renzi, il quale da premier rimase vittima dell'accentuata personalizzazione del referendum costituzionale ai tempi della riforma del 2016 e fu costretto subito dopo a dimettersi. Salvini non è premier, ma stato senza ombra di dubbio il leader che più ha messo la faccia sulla riuscita di questi referendum, e un fragoroso flop della consultazione - con un'affluenza intorno al 30 per cento - gli verrebbe addebitato come una sconfitta personale per indebolirlo sia come inquieto azionista dell'attuale maggioranza di governo che, in prospettiva, nella corsa perla futura guida del centrodestra.

 

Letta sta cavalcando le peggiori pulsioni del giustizialismo grillino per non pregiudicare ulteriormente la precaria alleanza con Conte, mala cosiddetta ala garantista della sinistra dovrebbe prendere le distanze da questa deriva in maniera molto più visibile e netta, perché la giustizia è a tutti gli effetti la più grande questione democratica che l'Italia ha in sospeso da ormai troppi anni: abbiamo sei milioni di processi arretrati con tempi pari a più del doppio delle altre democrazie occidentali, abbiamo più di mille carcerazioni all'anno di cittadini ingiustamente detenuti, elo Stato paga 28 milioni di euro all'anno in risarcimenti per ingiusta detenzione. Quella referendaria è dunque una battaglia di civiltà, e ridurla a un mero affare di bottega per sistemare le beghe politiche contingenti sarebbe remare contro l'interesse nazionale. Non rientra in questo novero la posizione di Fratelli d'Italia, che invita - legittimamente, ovvio - a votare no ai quesiti sulla legge Severino e sulla custodia cautelare, ritenendoli «un cedimento sotto il profilo della sicurezza, dell'ordine e della legalità».

 

Ma sostenere anche questi due referendum non è un arretramento situazionista in contrasto con la cultura politica del centrodestra: è, anzi, la riaffermazione di due sacrosanti principi liberali troppo spesso calpestati nell'epoca del populismo giacobino. La legge Severino- peraltro usata surrettiziamente in modo retroattivo per cacciare Berlusconi dal Senato- sancendo l'incandidabilità o la sospensione di amministratori locali e regionali condannati in primo grado anche per reati minori come l'abuso d'ufficio, rappresenta infatti una violazione palese della presunzione di innocenza prevista dall'articolo 27 della Costituzione. E l'uso sproporzionato della custodia cautelare, usata disinvoltamente da Tangentopoli in poi a fini confessori, è anch' esso un vulnus da sanare, anche perché il referendum non cancella la parte della legge che la prescrive quando sussiste il pericolo «concreto e attuale» che l'indagato commetta delitti di grave pericolosità sociale. Votare sì non significa quindi mettere a rischio la sicurezza, ma ripristinare lo Stato di diritto.