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Non ne azzecca una, tutti gli errori di Giuseppe Conte

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Pietro De Leo
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Certo, esercitare una leadership già non è facile nei partiti in cui sei politicamente nato e cresciuto, figurarsi farlo in conto terzi. Ma evidentemente a Giuseppe Conte questo principio non era troppo chiaro quando, dopo la nascita del governo Draghi, cominciò la sua avventura al timone del Movimento 5 Stelle.

Evidentemente convinto dell’inscalfibilità di quell’allure pseudomonarchico che si era costruito (con la sapiente regia di Casalino), durante il suo secondo governo, segnato dal dramma del Covid. Così come sembrava granitico contorno di vittima del sistema, con l’iconografia del suo addio da Palazzo Chigi salutato dagli applausi dei dipendenti (i suoi lo rivendettero come un unicum, ma poi si scoprì che è una sorta di rituale quando un Presidente del Consiglio lascia quelle stanze). Insomma, pareva una camminata trionfale, quella nel Movimento, invece si è trasformata in un calvario. Si parte dal duello con Beppe Grillo, prima suo mentore e poi suo primo avversario, nella sofferta redazione dello statuto. Si vira verso una tornata alle amministrative d’autunno piuttosto dolorosa, in cui si innesta un altro risultato elettorale da allarme rosso. Ovvero che contestualmente al voto per il Campidoglio si votava nel collegio uninominale per la Camera di Primavalle, lasciato proprio da una deputata pentastellata. Ebbene, il Movimento 5 Stelle non si era nemmeno presentato. Si disse allora che Conte era appena entrato in carica come leader, e non si poteva imputare a lui quella tornata non proprio felice.

Bene, ma va detto che poi il trend, sia nelle cariche interne sia nel quadro politico, non è cambiato, ma ha annoverato un lungo mosaico di sconfitte. A partire dai capigruppo. Al Senato, ha dovuto digerire il ritiro del suo fedelissimo Licheri per Mariolina Castellone, per quanto non ostile all’ex premier comunque è considerata più vicina a Luigi Di Maio. Alla Camera, invece, non è riuscito a creare un avvicendamento su Andrea Crippa, verso cui, invece, ha un rapporto costellato di frizioni. Sempre sul piano interno, poi, c’è il disastro delle delibere sullo statuto e la sua leaderhip. Un ricorso di attivisti pentastellati ha innescato un’ordinanza tribunalizia di sospensione e quindi Conte, per mesi, ha esternato e agito di fatto come un leader congelato. Addirittura, quando le delibere sono state sottoposte al voto nella piattaforma Skyvote per superare l’impasse, è stato necessario ripetere la consultazione sullo statuto per mancato raggiungimento del quorum. Senza dimenticare, poi, il trend di partecipazione costantemente in picchiata, rispetto ai tempi gloriosi dell’«uno vale uno» (ma questa, va detto, era una tendenza già iniziata da prima).

L’altro aspetto del dramma politico, poi, riguarda la capacità di influire all’esterno. C’è la debacle nell’elezione del Presidente della Repubblica (Conte voleva una figura femminile, e poi si è visto com’è finita). C’è la muscolarità sul dossier bellico, una linea in cui influisce molto la sua malcelata ostilità verso Draghi e infatti, seppur nel merito può avere delle ragioni, comunque appare isolato rispetto agli altri leader che a differenza sua hanno apprezzato la linea tenuta dal premier a Washington. Fino alla debacle di ieri, in Commissione Esteri. Dopo il disastro Petrocelli è stato bruciato prima il nome di Gianluca Ferrara (candidato in un primo momento, ha fatto un passo indietro) e poi di nuovo quello di Ettore Licheri, abbattuto dal voto segreto. Dando il senso di una leadership sempre più in pericolo.
 

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