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Nel nuovo libro "Il mostro" Matteo Renzi accusa il pm che lo indagò

Matteo Renzi
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Pubblichiamo un estratto del capitolo «Nastasi, quelle strane indagini notturne» dell’ultimo libro di Matteo Renzi «Il Mostro».

Nel momento in cui ricevo l’avviso di garanzia non ho la minima idea di chi sia questo Pm, Antonino Nastasi. Quando un anno dopo me lo trovo davanti nel primo interrogatorio mi sono già fatto un’idea di lui. 

Ho letto il suo curriculum e questo mi basta per dire che il suo stile è poco serio. E non per l’arroganza di arrivare in ritardo, a metà interrogatorio: può capitare a tutti un contrattempo, per carità. L’arroganza è in tutto il resto, dal modo con il quale conduce le indagini autoassegnandosi i fascicoli fino al modo con il quale attacca i parlamentari manifestando sottili forme di minaccia nei loro confronti. Non è la puntualità dunque il problema del dottor Nastasi. Anche perché se al mio interrogatorio egli arriva in ritardo, è in un altro posto, ben più drammatico, che Nastasi arriva fin troppo presto: la sede del Monte dei Paschi di Siena in una tragica notte del 2013.
Riavvolgiamo il nastro. Con un’avvertenza: siamo dentro uno dei più clamorosi scandali della storia repubblicana, sottaciuto e minimizzato da larga parte dell’opinione pubblica e rilanciato con forza da alcuni esponenti del mondo dell’informazione che pure non sono mai stati teneri con me ma cui è giusto pagare un tributo: la trasmissione Mediaset Le Iene, che da sempre cerca di fare luce sul caso con il giornalista Antonino Monteleone, e l’attuale direttore del «Tempo», Davide Vecchi, autore di due libri sul caso David Rossi che andrebbero letti ma che invece vengono ignorati.

Aggiungo che questa vicenda non ha niente a che vedere con lo scandalo politico che consiste nella distruzione sostanziale del Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca al mondo, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo. La mia opinione è che alla fine sia stato il presidente Giuseppe Mussari a divenire per mille ragioni l’unico responsabile, forse il capro espiatorio di una clamorosa serie di errori compiuti dalla classe dirigente nazionale di questo Paese.
Ma le cose non stanno come sembrano. E sarebbe interessante un giorno scrivere la verità sui tanti errori, da Banca 121 ad Antonveneta, del glorioso Monte dei Paschi di Siena, il cui epitaffio potrebbe suonare così: la banca che sfangò la peste e le guerre mondiali, ma non sopravvisse alle cure dei dirigenti dalemiani. Qui però non si parla di questo, di banche o politica o acquisizioni. Qui si parla di sangue e di morte.

Nella serata del 6 marzo 2013 un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena precipita dal quarto piano del palazzo nel quale lavora. Il dirigente si chiama David Rossi, è il capo della comunicazione della banca proprio mentre l’istituto di credito sta attraversando giorni difficilissimi. Si rincorrono notizie su provvedimenti giudiziari in arrivo, c’è tensione palpabile nella meravigliosa ma complicata città toscana, non mancano preoccupazioni sul futuro dei lavoratori, stressati negli ultimi lustri da decisioni politiche e manageriali discutibili. David Rossi muore cadendo dalla finestra. Si suicida, come in molti dicono immediatamente anche facendo riferimento a una lettera di addio, a una email preoccupata inviata all’amministratore delegato in mattinata? Oppure è successo qualcosa di diverso come sostengono alcuni, evidenziando una serie di stranezze sia sulla scena del delitto sia nella ricostruzione della caduta? Ovviamente nessuno di noi conosce la verità. In casi come questi tocca agli investigatori capire che cosa sia successo. Ma l’indagine condotta dai magistrati di Siena è vergognosamente superficiale e piena di errori e omissioni. E ancora oggi quella vicenda non è chiara. Al punto che, a distanza di ben otto anni, la Camera dei deputati deciderà di istituire una commissione di indagine per capire di più su ciò che è accaduto quella notte nei vicoli senesi adiacenti Rocca Salimbeni. Tocca alla Camera dei deputati perché gli inquirenti di Siena hanno sbagliato, solo alcuni giudici di Genova hanno provato a correggere, il Csm si è sostanzialmente disinteressato.

Dice il presidente della commissione d’inchiesta, l’onorevole Zanettin: «Sicuramente ci sono delle lacune gravi nella prima inchiesta ci sono aspetti di superficialità che lasciano perplessi». Lacune e superficialità, come minimo. Volutamente o casualmente, non è dato saperlo. Anche perché nel corso degli anni alcune trasmissioni televisive e alcuni giornali hanno oggettivamente squarciato un velo sui troppi misteri dell’affaire Rossi: colpa degli scandali finanziari? Ci sono state ombre per la partecipazione di alcuni importanti membri della comunità senese a party gay, come sostengono alcuni escort? C’è forse l’ombra di ricatti di vario genere?
Non tocca a me, né ne sarei capace, stabilire ciò che è davvero accaduto nella stanza del povero David Rossi. Aggiungo che, per come vedo io la cosa, ogni ipotesi avanzata da chi non ha titolo per farlo non è che una ulteriore ferita inferta ai familiari, che da anni con dolore e dignità chiedono di arrivare a dire una parola definitiva di verità. Quello che è certo è che le indagini sono condotte in modo sbrigativo. E gli inquirenti mostrano una superficialità, per essere ottimisti, o una incapacità, per essere malevoli, che lascia sbigottiti. Davanti alle domande dei commissari della Camera dei deputati, membri della polizia giudiziaria smentiscono i Pm. I Pm smentiscono se stessi. Spuntano prove tralasciate, testimoni non sentiti, coincidenze imbarazzanti. Tutti dicono tutto e nessuno capisce davvero come siano andate le cose. Antonino Nastasi, il Pm che qualche anno dopo riceve notorietà nazionale firmando il mio avviso di garanzia e si occupa di conoscere la verità sulla fondazione Open, quella notte era lì. Era infatti in forza alla procura di Siena. Era lì e certo non può essere l’unico responsabile di indagini fatte male, sulle quali il Csm non ha ritenuto di dire una parola di chiarimento per anni e su cui la procura di Genova, competente per territorio, ha troppe volte rinunciato a intervenire in modo incisivo. Nastasi era lì quella sera. E io non posso certo attribuire a lui tutte le colpe di una indagine imbarazzante per come viene condotta, con la scaena criminis che viene inquinata dagli stessi investigatori, che secondo i testimoni si siedono dove non debbono sedersi, toccano oggetti che non avrebbero dovuto toccare cancellando le tracce, permettono che si svuotino i cestini dove vi sarebbero tracce di sangue del Rossi. Non importa essere laureati in legge: basta aver visto una serie tv americana per sapere che la scaena criminis non si tocca.

E invece no, la scena viene inquinata innanzitutto dagli investigatori che non rispettano le minime regole del gioco, le minime precauzioni. Nastasi era lì, quella sera. E insieme ai suoi colleghi svolge le prime indagini arrivando subitaneamente alla conclusione che Rossi si è suicidato. E poco importa se le telecamere mostrano un orologio che vola dal quarto piano dopo che Rossi è già caduto e morto. E poco importa se nella ricostruzione di telefonini ed email troppi elementi lasciano dubbi. E poco importa se lo stesso Nastasi si smentisce, prima dicendo ai commissari di ricordare «nitidamente» di non essere mai sceso in strada – particolare che davanti a un cadavere uno dovrebbe pur ricordare, anche solo per umana emozione e dolore – e poi ammettendo invece che l’uomo ritratto nella foto nel vicolo nei pressi della salma è davvero lui, cosa che aveva appena negato con forza. E meno male che lui era sicuro di non essere sceso in strada, lo ricordava «nitidamente».
Il punto però – per la mia vicenda, in questo caso – non sono le indagini fatte male. Ciò è uno scandalo su cui la procura di Genova e il Csm dovrebbero dire parole definitive. Il punto non è nemmeno che Nastasi abbia mentito alla commissione di inchiesta: in tribunale a Firenze ormai lo chiamano tutti sottovoce «Nitidamente». E il punto non è nemmeno la clamorosa contraddizione tra ciò che dice l’ufficiale dei carabinieri Aglieco e ciò che dice il procuratore Nastasi sul telefonino della vittima: entrambi si accorgono che sta chiamando l’onorevole Santanchè, poi divergono le versioni sull’utilizzo del cellulare del defunto.

Il punto è che quella sera Nastasi era lì, entra nella stanza di Rossi, verifica quello che è successo, decide che è un suicidio (e magari, sia chiaro, lo è davvero). Ma il punto è che Nastasi quella sera era lì, ma non doveva stare lì. Già, non doveva. Non ne aveva titolo. Si è intrufolato senza alcun titolo giuridico dentro una vicenda che competeva a un suo collega, il Pm di turno, non a lui. Un Pm non può autoattribuirsi delle indagini. La Costituzione e la legge prevedono che vi sia un giudice naturale costituito per legge. Cosa significa? Che ci sono delle procedure da rispettare per decidere chi deve indagare su un determinato fatto. Nastasi non segue la legge. Nastasi non è il Pm di turno a Siena. Eppure troviamo Nastasi sulla scaena criminis, nel vicolo dove è caduto il povero David Rossi, dentro una indagine condotta con uno stile improvvisato e piena di errori marchiani.

Ma chi ha deciso che lui dovesse essere lì? La legge? No. Lo ha deciso lui stesso. E non ha neanche chiamato il suo capo per farsi autorizzare, ma prima ha proceduto a fare le indagini e poi, solo molte ore dopo, si è visto attribuire il fascicolo. Ma quando va – in serata – a interrogare la vedova, nessuno lo ha autorizzato. Non funziona così, non può funzionare così. Se un Pm fa quello che gli pare, questo porta all’anarchia giudiziaria. Se poi facendo quello che gli pare concorre alla realizzazione di una delle indagini meno rigorose che la cronaca giudiziaria ricordi, siamo davanti a un vero e proprio scandalo nello scandalo. E se è vero che tutti hanno paura di far notare queste cose perché temono la vendetta giudiziaria, io sono una persona libera che dice ad alta voce quello che tutti pensano e che nessuno afferma: la legge vale per tutti, anche per i Pm. Il fatto che Nastasi si sia arrogato il diritto di entrare in quella stanza quando non era lui il Pm di turno è un errore gravissimo. Lo sarebbe stato anche se il caso fosse stato pacificamente risolvibile. Ma a maggior ragione dopo che si svuotano i cestini, si toccano gli oggetti, si inquina la scena del delitto, si verificano incongruenze nel racconto tra polizia giudiziaria e magistrati, si dice il falso sulla presenza nel vicolo e soprattutto dopo che rimane il dubbio su cosa sia successo al povero David Rossi, l’idea che il Pm Antonino Nastasi sia entrato senza titolo sulla scaena criminis è un colpo inferto al corretto funzionamento delle indagini.

Voi direte: magari è stato un caso. Devi capire, penserete, l’emozione di un tragico evento. Eh no, non ci sto. Davanti ai tragici eventi i magistrati devono essere i primi a mantenere la calma e a rispettare le procedure e la legge. Perché se ognuno fa come gli pare non viviamo più in uno stato di diritto. Prendersi un fascicolo senza essere autorizzati è segno di arroganza inaccettabile. La stessa arroganza che porta Nastasi a rispondere a brutto muso ad alcuni parlamentari. All’onorevole Migliorino, dei Cinque Stelle, dopo che questi ne aveva evidenziato la contraddizione sulla presenza nel vicolo che pure Nastasi «ricordando nitidamente» aveva escluso, il Pm dice: «Lei alterato non mi ha visto e le auguro di non vedermi mai alterato». E alla critica di un deputato della Lega, Borghi, risponde: «Questo non glielo consento» permettendo a Borghi di dargli una lezione di diritto parlamentare: «Lei può non rispondere, ma lei non mi consente proprio niente. Lei in questo momento non sta facendo il Pm, io posso dire quello che voglio. Le spiego qualcosa io di diritto parlamentare: io qui sono rappresentante dei cittadini e le chiedo quello che voglio perché è una cosa che la Costituzione mi consente e una volta magari mi consentiva anche di essere libero da delle pressioni che lei e i suoi colleghi tante volte fanno ad altri miei colleghi, perché i Padri costituenti avevano immaginato una separazione tra noi e la giustizia».

E quando finalmente Nastasi si mette a sedere davanti a me, dopo che sto già parlando con i suoi capi, il procuratore capo e il procuratore aggiunto, nel corso dell’interrogatorio previsto dalla legge, io penso di essere fortunato perché sto pagando con le mie tasse un magistrato che al massimo potrà incriminarmi per un presunto reato di finanziamento illecito che non ho compiuto. Ma quello stesso magistrato ha scelto di entrare in una indagine che non gli competeva su un presunto suicidio, ha risposto con indecoroso sgarbo e senza alcun rispetto istituzionale a dei colleghi parlamentari, di altri partiti, che semplicemente gli stavano ponendo dei dubbi.

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