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Declino M5S, il grillismo vittima del suo populismo da quattro soldi

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Riccardo Mazzoni
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L’ascesa del Movimento Cinque stelle è stata il frutto avvelenato dell’impoverimento generale causato dalle crisi a catena di questo inizio secolo e dal collasso del ceto medio che era sempre stato la cerniera sociale della stabilità politica. Un terreno fertile in cui la rivolta dei vaffa ha moltiplicato i consensi in nome della purezza politica da contrapporre al potere, che per sua definizione è intimamente corrotto. Solo che una volta chiamato a gestirlo, il grillismo di lotta e di governo è imploso fallendo fragorosamente l’impatto con la realtà, schiacciato dal peso del suo populismo da quattro soldi e di una contraddizione esistenziale segnata dalla convivenza di due spinte contrapposte: istituzionalizzarsi in modo definitivo o recuperare il movimentismo delle origini.

In questo senso, due vicende parallele delle ultime settimane hanno riassunto alla perfezione il pessimo stato dell’arte: Grillo che si fa assumere dal suo Movimento per curare la comunicazione è insieme un capolavoro di improntitudine e una nemesi ontologica, alla stregua del Carneade Petrocelli che non molla la presidenza della Commissione Esteri del Senato scambiando un ruolo istituzionale per un diritto di usucapione.

La mercificazione della politica e l’attaccamento alla poltrona erano un tempo i bersagli preferiti della contronarrazione grillina, tanto che nel 2010 il cofondatore del Movimento scrisse sul suo blog parole definitive sul finanziamento ai partiti: “Il costo della politica è un’invenzione linguistica dei politicanti per diventare ricchi, o almeno benestanti, con le risorse dello Stato”.

Una propaganda – quella sulla politica a costo zero - che ha perso progressivamente ogni briciolo di credibilità a causa dei grotteschi contenziosi sui rimborsi, degli scontrini gonfiati e del crescente malumore dei parlamentari nei confronti prima di Casaleggio jr e poi dello stesso Elevato. Ora anche l’ultimo velo di ipocrisia è stato strappato dal sì degli iscritti – rigorosamente pilotato - ai fondi del 2 per mille, la forma di finanziamento pubblico fino ad allora sempre messa all’indice come sterco del diavolo.

Ma il Movimento è questo: un guazzabuglio ingestibile con un capo ancora sub iudice, Conte, che da premier ha praticato il peggior trasformismo e ora si barcamena tra un profilo istituzionale sempre più compromesso e un’ambiguità senza limiti sia sul sostegno a Draghi che sulla politica estera.

Il caso Petrocelli è emblematico: l’ascesa a una cruciale presidenza di commissione di questo Carneade è la diretta conseguenza della filosofia di Casaleggio. per cui qualunque idea o persona è perfettamente fungibile, tutti possono fare tutto, perché in fondo nessuno ha un’identità propria, ma esiste solo l’identità collettiva espressa dal sacro blog. E Petrocelli, in fondo, è rimasto fedele a quella logica, perché – va detto chiaro – la sua posizione filorussa è in perfetta consonanza con Grillo e con Di Battista, a cui Conte peraltro strizza costantemente l’occhio in contrapposizione al neoatlantista Di Maio.

Un guazzabuglio, appunto, in cui ogni paradosso diventa la regola, e il leader carismatico del maggior partito di governo può omaggiare l’ambasciatore cinese durante il G7 in Cornovaglia che certifica la lealtà occidentale del nostro Paese. Oppure, sul blog di Grillo può apparire un post che denuncia la dominante narrazione “russofoba” in Italia che stravolgerebbe la realtà sulla tragedia ucraina e sul “mito” dell’espansionismo russo, con un’esplicita presa di distanze dalla Nato. Anche se espulso, Petrocelli resta insomma l’emblema dell’uno vale uno e delle pulsioni antioccidentali del grillismo, due zavorre ideologiche dure a morire.

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