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Dopo la figuraccia sul Quirinale adesso pensate agli italiani

Franco Bechis
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Dopo una settimana fra le infelici della storia di questa Repubblica come si fosse assistito a un folcloristico gioco dell'oca l'Italia è tornata alla casella di partenza, con Sergio Mattarella presidente della Repubblica e Mario Draghi presidente del Consiglio, la coppia che in fondo dispiaceva di meno sia dentro che fuori i confini nazionali.

Probabilmente alla casella di partenza entrambi i protagonisti sembravano più contenti, e un po' meno in forma di prima oggi sono. Il presidente della Repubblica per essere stato costretto ad accettare un secondo mandato che in ogni modo aveva fatto capire di non ritenere normale, e il presidente del Consiglio perché in quella settimana è stato ben triturato dagli stessi componenti della maggioranza, comprendendo quel che prima gli era sfuggito: in questo Parlamento che pure gli ha dato più volte la fiducia, non è così popolare, anzi. Ma dalla settimana folle ne escono a pezzi tutti i leader politici con la sola eccezione di Giorgia Meloni, avendo mostrato di essere generali senza truppe e privi di qualsiasi leadership dentro il Palazzo.

Si possono raccontare mille altre storie, ma la realtà è quella e ad essa si sono piegati gli stessi protagonisti avendo mestiere. E' capitato ad Enrico Letta, che mai come in quei giorni ha potuto comprendere come quel Pd alla cui guida è stato catapultato in un momento di grande difficoltà fosse esattamente quello descritto da Nicola Zingaretti il giorno della resa.

E' successo a Giuseppe Conte, cui non fa male ogni tanto incontrare la realtà in carne ed ossa scendendo da quell'iperuranio in cui lo chiuse Rocco Casalino dal primo giorno di questa legislatura. Ed è accaduto anche a Matteo Salvini, che alla fine si è piegato ai pezzi grossi del suo partito che hanno inciso non poco su quel grottesco sabato mattina. Poche ore dopo la sua scelta di abbandonare la Meloni senza spiegazioni ho incontrato per strada un ex premier della sinistra quasi dispiaciuto per il leader leghista: “Ha davvero avuto”, mi ha confessato scuotendo la testa, “in mano il boccino di questa partita. Ma si è consegnato proprio a quei suoi dirigenti che un domani anche mai vincesse trionfalmente le elezioni saranno i primi a impedirgli di andare a palazzo Chigi. Incomprensibile”.

Le macerie dunque sono tante, e a guardare quel che è accaduto si direbbe che oggi non esiste né centrodestra né centrosinistra. Le ferite sono più grandi ed evidenti nel primo schieramento, perché almeno l'altro sta tutto insieme nelle stanze del potere e sottopotere, in quel governo che è sempre unguento efficace contro molti mali.

Con una classe dirigenziale politica a pezzi non sarà certo una cavalcata quest'ultimo anno del governo Draghi, che pure tornerà ad essere rinforzato dall'appoggio di un Quirinale tornato con i suoi pieni poteri (anche quello dello scioglimento anticipato delle Camere). Ma non bisogna confondere il naufragio evidente di quella settimana come lo specchio reale di questo paese. Saranno delusi dai propri rappresentanti, non c'è dubbio, ma gli italiani ancora hanno una idea della vita e della organizzazione della società che rispecchia quello che erano in origine i due schieramenti ora in frantumi.

Fuori da quelle mura esistono sia un centrodestra che un centrosinistra radicati da decenni, in attesa di leadership che siano in grado di dare risposte ai loro problemi e alla vita reale, che prima o poi tornerà normale, uscendo dalle nebbie e dalle paure della pandemia. E pretenderanno qualcosa di più da una classe politica rimbecillita per due anni come se la vita fosse solo distanziamento, mascherine, vaccini e un lasciapassare per esistere.

E' quella vita reale l'oggetto della politica, e tornerà ad essere fatta di lavoro, di tasse, certo anche di salute del corpo e dello spirito, di casa in cui si vive, di tempo libero da avere a disposizione, di speranza di migliorare la propria condizione, di possibilità per i propri figli, di potere avere ed allevare quei figli e figlie, del diritto anche alla felicità. Sono queste le urgenze di ciascuno di noi, e lo sono ancora di più dopo questi due anni e quella brutta settimana dell'elezione del presidente della Repubblica che sarebbe bene lasciarsi alle spalle il prima possibile.

Oggi non mi sembra il momento di pensare ad architetture politiche o a regolamenti di conti interni: affari di poco conto e di esclusivo interesse dei professionisti della politica che mai come ora rischiano di apparire una casta autoreferenziale. Non è il caso di alzare polvere per confondere il pasticcio appena combinato. Anzi, meglio lasciare depositare i calcinacci con calma, restando magari un po' di tempo un pizzico più defilati e riprendendo a rimboccarsi le maniche per lavorare come si attendono i cittadini. Perché si può fare ancora peggio: trascorrere questi mesi che restano prima di ridare la parola legittimamente al popolo trastullandosi con nuove regole elettorali o nuovi contenitori. Cose che sinceramente sono di interesse esclusivo dei signori che abitano il Palazzo. Ma fuori di lì non importa a nessuno.

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