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Matteo Salvini e Giorgia Meloni sfidano l'Ue: la riforma. Dal disgelo alla strategia per il Colle

Carlantonio Solimene
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In politica nulla avviene per caso. E così l'esplosione del caos nel Movimento 5 stelle, con la possibile scissione grillina e il ritorno in discussione dell'alleanza con il Pd, ha sortito un effetto anche nel campo avverso. Con il centrodestra che, al contrario, ha a poco a poco riannodato i fili tra le varie forze politiche. Fili che, in altri tornanti della legislatura, sembravano quantomeno sfilacciati.

L'ultimo segnale, dopo gli ammiccamenti tra Lega e Forza Italia su federazione o partito unico, riguarda il riavvicinamento di Mateo Salvini e Giorgia Meloni. Descritti sovente nei retroscena come l'un contro l'altra armati - e, d'altronde, i rispettivi partiti sono in competizione per il primato nei sondaggi - nelle ultime settimane i due leader si sono mossi all'unisono (compresa la staffetta di lettere al Corriere della sera per replicare a un editoriale di Ernesto Galli della Loggia: prima Salvini, il giorno dopo Meloni).

E ieri a suggellare il momento di disgelo è arrivata la comune firma sotto l'«Appello sul futuro dell'Europa» in cui si stigmatizza il processo di costruzione in atto verso «un'Europa senza nazioni», una sorta di «Superstato europeo» che porterà - lamentano a una crescente cessione di sovranità dei singoli Stati membri. Il passaggio non è banale. Perché fino a qualche settimana fa la rivalità italiana si era spostata anche nell'Europarlamento, con il braccio di ferro per accogliere nei rispettivi gruppi gli eurodeputati dell'ungherese Viktor Orban appena usciti dal Ppe. Stavolta, invece, Meloni e Salvini si fanno promotori di un documento comune sotto il quale ottengono la firma proprio degli eletti ungheresi del gruppo Fidesz e di altri pezzi da novanta del sovranismo europeo.

Dal Rassemblement National di Marine Le Pen agli spagnoli di Vox passando per i polacchi del Pis. Certo, non è propriamente la compagnia «europeista e atlantista» a cui si riferiva Mario Draghi nel discorso con il quale aveva chiesto la fiducia alle Camere. E il Partito democratico ne ha approfittato subito per mettere nel mirino gli «alleati» del Carroccio nella strana maggioranza, accusati di incoerenza e di aver solo «finto» la svolta pro-Ue. Ma, a ben vedere, la nervosa reazione registratasi a sinistra ha a che fare soprattutto con un dato incontrovertibile. Se da un lato il «campo largo» del centrosinistra sta crollando sotto i colpi della faida Conte-Grillo e la «maggioranza Ursula» non ha di fatto mai visto la luce, dall'altro il centrodestra - quando serve - è sempre capace di ritrovare l'unità. Lo ha fatto con le candidature alle Amministrative - dove la difficoltà stata quella di individuare nomi, non certo di disegnare il perimetro della coalizione -, lo ha fatto con l'Europa e lo farà, soprattutto, quando la legislatura arriverà allo snodo più importante: la scelta del successore di Sergio Mattarella.

Una partita che in passato ha visto il centrodestra esclusivamente spettatore e nel 2022, invece, troverà Salvini, Meloni e Berlusconi pronti a dare le carte e dettare le proprie condizioni. Certo, alcune divergenze restano, così come le rivalità. A ben vedere, l'auspicio di alcuni leghisti di accogliere anche Fratelli d'Italia nella maggioranza di governo sembra più indirizzato ad arrestare la scalata di Giorgia Meloni nei sondaggi che a rinforzare l'azione di Draghi. Piccoli dispetti. Ma l'asse destinato a reggere.

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