un anno di pandemia

Così il virus ci ha cambiato e si è preso centomila italiani

Francesco Storace

Non ha bussato. Come un malintenzionato è entrato centomila volte in casa nostra, in tutte le case, e ha colpito dove capitava. Quel virus si è intrufolato dappertutto. Nei negozi, sull’autobus, a scuola, in palestra, al ristorante. Dicono anche alle stadio. Ci ha ammazzato.

Altri 318 italiani – tra uomini e donne – ieri sono partiti nel viaggio dalle parti del Creatore. E sono oltre centomila. Morti senza fiato. Un rapinatore ci avrebbe strangolato a letto in pochi minuti. L’agonia provocata da Wuhan è durata molto di più. 100.103 le vittime a ieri. Tante quante ne ospita il Sacrario di Redipuglia. La Grande Guerra.

  

 

All’inizio lo chiamavamo il morbo cinese, poi ce lo presentarono come il maledetto coronavirus, a cui seguì un più statistico Covid-19. Familiarizzammo con lui col nome Covid, manco fosse un giocattolo.

Vero, questa tragedia che si protrae da un anno non è solo nostra. Quasi ci debba consolare che se si chiama pandemia è perché è diffusa in tutto il mondo, ma in fondo ci interessa poco il mal comune mezzo gaudio. Siamo maglia nera assieme a pochi altri e già questo provoca sofferenze e giustifica insofferenze.

 

Una stagione in cui abbiamo conosciuto gli scettici, quelli che bofonchiavano – ora un po’ di meno – che «è una normale influenza, un po’ più grave». Con gli ospedali pieni di gente che ne usciva con i piedi in avanti.

Poi c’è stato l’eroismo dei demagoghi, quelli che attribuivano casacche politiche persino al virus. Amavano i cinesi e guai a maledirli mentre seppellivamo i nostri cari senza poterli salutare. Gli aperitivi come una maledizione.

 

E ci sono stati – e crescono – gli impauriti. Quelli che il contagio lo temono davvero e non tollerano chi non adotta precauzioni. È l’Italia 2020 che continua nel 2021, e prega che finisca prima possibile.

Domani 10 marzo saremo ad un anno dalla zona rossa nazionale. Tante misure adottate, ma la contabilità della pandemia resta terribile. Centomila i morti ufficiali di Covid, mentre altri due milioni e mezzo di italiani sono riusciti a guarirne. Mentre scriviamo, in Italia ci sono 472.533 positivi. 3.081.368 i casi totali. Tre milioni, pari all’intera popolazione censita di Roma.

È più di un anno che conviviamo con lo stato di emergenza, deliberato dal governo di Giuseppe Conte il 31 gennaio 2020 e ancora in vigore col governo di Mario Draghi. Significa regole, dpcm, decreti, deroghe, divieti, sanzioni. Un popolo di santi, di navigatori, di poeti e da un anno anche di giuristi.

Nella mente di ciascuno di noi restano impresse due fotografie: le bare che riempiono Bergamo e portate via dai mezzi militari; le facce stravolte da nottate insonni di infermiere straordinarie.

E poi i racconti di chi la malattia l’ha vissuta e ha potuto descriverla con i sintomi: la tosse che spaventava le persone nelle vicinanze; la febbre entrata anche nella normativa a 37 e mezzo; la spossatezza; i dolori; la fine di odori e sapori. Non sempre tutto questo, ma quasi sempre questo in ognuna delle dimostrazioni della presenza in vita del virus.

Abbiamo lottato per scansarlo. Le mascherine sono diventate un pezzo del nostro abbigliamento e ci intristisce non poter vedere più il sorriso dei nostri amici. Il distanziamento ci fa mancare gli abbracci. L’igiene delle mani la regola a cui talvolta si dimentica di far fronte con una buona saponetta. Per fortuna c’è il gel ovunque.
I nostri occhi non ci hanno mostrato – se non attraverso le telecamere perché ci erano preclusi – i reparti Covid degli ospedali e le terapie intensive. Ma sappiamo tutto del caos in cui si viveva.

Emblema di una stagione che sembra non finire mai la scuola sbarrata ai nostri ragazzi per troppo tempo. La beffa dei banchi a rotelle, i trasporti superaffollati. E come faceva il virus a rinunciare a tutto quel ben di Dio sulle metropolitane...

Abbiamo conosciuto la tragedia dei negozi sigillati. Le palestre senza vita. Cinema e teatri ingialliti. Ristoranti senza gusto. Economia in ginocchio. Assieme alle conferenze stampa di Angelo Borrelli, protezione civile, e di Domenico Arcuri, commissario. Entrambi fanno altro adesso.

Quei centomila morti ci fanno davvero male. Le statistiche ignorano lacrime e paure. Eppure avevamo sperato. Cantando sui balconi nella prima ondata. Riversandoci in centro durante la seconda. Ma ora che arriva la terza, l’esasperazione è infinita.

Anche per questo chi governa adesso non deve sottovalutare, come ha fatto chi c’era fino a ieri, il valore del lavoro perduto. Dello stato di sofferenza vera in cui si riduce chi lavorava del proprio.

Anche per questo non se ne può più dello spettacolo dei dibattiti con i virologi di tutte le specialità in televisione; la speranza la danno con la loro fatica quelli di tanti buoni ospedali italiani quando sono al posto di lavoro. Rifiutino le interviste a gogò.

La comunicazione al tempo del Covid è stata un disastro. Ne siamo usciti atterriti, l’ansia si è impadronita di noi. I social sono stati riempiti dalle teorie sconnesse di quanti parlano del Covid come prima della Nazionale di calcio. A ognuno il suo mestiere. «Il mio medico dice», e magari non era vero perché un troll lo aveva postato su Twitter.

Siamo diventati pazzi tutti – con centomila di noi in meno – a specializzarci con le varie misure. Il lockdown che si rinnovava con cinica periodicità. Poi abbiamo ridicolizzato (salvo metterci poi a mani giunte perché non toccasse alle nostre parti) le regioni a colori. Gif con i pastelli a ruba. La zona bianca come meta, la gara tra i governatori.

Ma c’era poco da ridere, perché ci è toccato conoscere la paura del tampone, la fila per il test, l’attesa del risultato e persino la curiosità («Ma a te fa male al naso?»). E il vaccino come al bancomat, io mi faccio questo, no, quello è più sicuro. Un popolo di scienziati.
Per fortuna hanno ritirato dagli scaffali il libro di Roberto Speranza. Con centomila morti l’opera del ministro della salute gliela tirerebbero in testa, altro che «Guariremo»...

Gli italiani hanno conosciuto da Report i giochi di prestigio attorno alla pandemia per evitare trasparenza. Il rapporto dell’Oms sull’Italia modificato e poi sparito. Le bugie dei dirigenti. Le carenze della struttura. 

Draghi andrà a Bergamo il 18 marzo. Lì c’è una procura che indaga e chissà se quel giorno ci saranno certi personaggi ancora in libertà. Perché una cosa è certa: per quei centomila morti qualcuno deve pagare.