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Governo, Alessandro Giuli su Mario Draghi premier: "Un'occasione per il centrodestra"

Alessandro Giuli
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In condizioni normali l’Italia non avrebbe bisogno di Mario Draghi, si andrebbe a votare e stravincerebbe il centrodestra. Ma le attuali circostanze hanno con ogni evidenza il profilo dello stato d’eccezione. Non sappiamo se dopo l’ex governatore della Bce ci resti soltanto il baratro, come suggerisce in modo desolato Mattia Feltri sul suo Huffington Post; ma non è da escludere che votargli alla cieca contro sia un atto autolesionistico, come ci ricorda il venerando Rino Formica. Ciò detto, che fare? 

Nel caso del centrodestra è da rimarcare l’assennata generosità con la quale Giorgia Meloni cerca di tenere unita la coalizione intorno alla possibilità di astenersi, auspicando che nasca così un governo istituzionale da sostenere oppure osteggiare a seconda dei provvedimenti proposti. Oggi tale prospettiva appare più complicata, vista la separatezza con la quale Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si presentano alle consultazioni. Tecnicamente sarebbe un salto di qualità verso un fiancheggiamento plausibile, sulla scia della consolidata opposizione patriottica che Giorgia si riserva comunque di esercitare nella sciagurata eventualità di un centrodestra in ordine sparso.

Tuttavia si pone subito la questione di precisare i contorni e il “prezzo” di una tale accondiscendenza verso l’esperimento di Draghi. In altri termini, bisognerebbe contrattare sin da subito, e in forma vincolante, sui termini di un “governo di scopo” ben circoscritto alle missioni principali indicate dal Quirinale e dal suo incaricato: fronteggiare la pandemia, completare la campagna vaccinale e nel contempo approntare il Recovery Plan seminando il terreno di una ripartenza economica che dia conforto ai ceti sociali più colpiti. Soprattutto, e veniamo a un punto fondamentale, si tratterebbe di influenzare la rotta governativa mantenendola dapprincipio lontanissima dagli errori degli incompetenti giallorossi visti sulla scena sin qui, lasciandone ai margini la nomenclatura improvvisata e la funesta devozione verso il “cattivo debito” (sussidi e bonus). Guai, insomma, a rinunciare al proprio potere condizionante sulla scelta dei ministri, sull’organigramma complessivo del nuovo potere (nomine nel deep state, a cominciare dai servizi segreti), sugli obiettivi collaterali (riformulazioni della spesa pubblica corrente) e sulle irrinunciabili relazioni internazionali della Nazione (Atlantismo vs Via della seta).  

Obiettivo non secondario dell’operazione, come sarà facile intuire, è anche quello di non regalare la stratosferica figura di Draghi alla maggioranza uscente rispetto alla quale ogni ombra di continuità va subito dissolta. Dopotutto il banchiere che ha salvato Eurolandia è anche un raffinato politico capace di riposizionarsi, in coincidenza con lo scatenarsi della pandemia, in un alveo assai più consentaneo alle istanze keynesiane e liberali del centrodestra a trazione sovranista che non alla vanitosa inerzia dissipatrice di Giuseppe Conte e dei suoi sponsores social-populisti nuovamente in marcia verso Palazzo Chigi. Perché, dunque, lasciarlo nell’orbita sbagliata quando si può attrarlo a sé nel modo giusto? E ancora: se, come possibile, le aperture di Draghi si rivelassero perspicue e promettenti, per quale ragione non si dovrebbe a quel punto ambire a rappresentare il baricentro del nuovo governo passando dall’astensione benevola a un’affermazione sovrana? Una volta consapevoli che l’alternativa rischia di essere il passaggio dal Polo escluso al Polo autoescluso, ovvero la negazione assoluta di un progetto ostile raggrumato intorno al solito tribunale dell’inquisizione anti sovranista (il progetto Ursula all’italiana, proteso alla costruzione di un nuovo arco costituzionale), la risposta appare abbastanza scontata.

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