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Primo Levi a Heinz Riedt: "Così io, numero 174517, grazie alla sua traduzione posso parlare ai tedeschi"

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Il giorno della memoria è la storia della mia famiglia. Storia fortunata, anche se non per tutti. Non per zio Sergio - per me prozio - che scelse di restare a Torino, mentre tutta la famiglia fuggì a Coazze, dove pensavano di essere al sicuro. Zio Sergio fu preso dai tedeschi in via Roma, proprio lì dove nonno Aronne (mio bisnonno) costruì la piazzetta che poi avrebbero chiamato «piazza Cnl». Sergio era con la fidanzata e un amico. Li presero tutti e tre. Lui finì ad Auschwitz, dove lavorò arrivando a consumare l’ultimo lembo di pelle. Non si reggeva più in piedi, se ne è andato nel fumo del forno crematorio di quel campo. A mio nonno Aldo tolsero l’auto: gli ebrei non potevano guidarla. Presero due biciclette, lui e nonna Lalla. La sera dopo lei, sfinita non riuscì a tornare a casa. Si attaccò a un grosso furgone per farsi trainare. È morta così e non ha visto il resto. Nonno aveva un magazzino di pezze di stoffa: si chiamava Arnaud & Colombo. Gli fu dato fuoco, tutto distrutto. A Coazze quelli che pensavi amici non lo erano. Fecero la soffiata. Qualcuno fu preso e la sua vita finì lì. Nonno fu fortunato. Vendette tutto quel che restava, lo trasformò in monete d’oro, e ne riempì una cintura. Prese mamma e zio e fuggì di notte grazie a un barcaiolo sul lago verso la Svizzera. Nonno e mamma non si videro per lungo tempo. Furono salvi grazie a quella cintura. Sono nato per quelle monete d’oro e quel barcaiolo. Ma nessuno degli amici dell’epoca ce la fece. Non ci furono altri «Franco» che ebbero la fortuna di nascere. Il cugino di nonno Aldo sarebbe diventato noto e simbolo di questa storia. Si chiamava Primo Levi. Come ogni anno di questi giorni spulcio fra le carte di famiglia. E fra queste è spuntata una lettera di Primo Levi mandata a mia zia Elda, che faceva l'insegnante e viveva con i suoi ragazzi il giorno della memoria tutto l'anno. Primo le inviava copia di un'altra sua lettera, che aveva spedito il 13 maggio 1960 ad Heinz Riedt, il partigiano che fu incaricato da un editore di tradurre in tedesco per la sua prima edizione in quella terra «Se questo è un uomo». Eccone alcuni stralci significativi. (Franco Bechis)

 

 

Caro Signor Riedt,
Le devo molte scuse: la prospettiva del viaggio in Germania, che in marzo sembrava verosimile, in aprile era già sparita. Ho avuto, ed ho ancora, moltissimo lavoro: sta capitando in Italia una specie di Wirtschaftswunder, tutte le industrie ne risentono gli effetti, e da più di un mese è normale che io rientri in casa stanco e instupidito alle 8 di sera. Mi resta ben poco tempo da dedicare ad altro che alle vernici. Inoltre, si è rapidamente esaurita l'edizione inglese di “If this is a Man”, è in preparazione una ristampa che (per misteriose ragioni economiche), viene fatta presso una tipografia italiana, ed ho tutte le bozze inglesi, molto pasticciate, da rivedere. Per queste ragioni rispondo con tanto ritardo alla Sua Lettera così gentile del 6/4, ed insieme all'ultima Sua del 4/5 (...)...E così abbiamo finito: ne sono contento, soddisfatto del risultato, e grato a Lei, ed insieme un po' triste…Capisce, è il solo libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di trapiantarlo in tedesco mi sento come un padre il cui figlio sia diventato maggiorenne, e se ne va, e non si può più occuparsi di lui.

 

Ma non è solo questo. Lei forse si sarà già accorto che per me il Lager, e aver scritto del Lager, è stato una importante avventura, che mi ha modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione di vita. Forse è presunzione: ma ecco, oggi io, 174517, per mezzo Suo posso parlare ai tedeschi, rammentare loro quello che hanno fatto, e dire loro "sono vivo, e vorrei capirvi per giudicarvi". Io non credo che la vita dell'uomo abbia necessariamente uno scopo definito; ma se penso alla mia vita, ed agli scopi che finora mi sono prefissi, uno solo ne riconosco ben preciso e cosciente, ed è proprio questo, di portare testimonianza, di far udire la mia voce al popolo tedesco, di rispondere alla SS del cinto erniario, al Kapo che si è pulito la mano sulla mia spalla, al dottor Pannwitz, a quelli che impiccarono l'Ultimo, ed ai loro eredi.

Sono sicuro che Lei non mi ha frainteso. Non ho mai nutrito odio nei riguardi del popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora dopo aver conosciuto Lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è, ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere. So anzi, da quando imparato a conoscere Thomas Mann, da quando ho imparato un po' di tedesco (e l'ho imparato in Lager!) , che in Germania c'è qualcosa che vale, che la Germania, oggi dormiente, è gravida, è un vivaio, e insieme un pericolo e una speranza per l'Europa. Ma non posso dire di capire i tedeschi: ora, qualcosa che non si può capire costituisce un vuoto doloroso, una puntura, uno stimolo permanente che chiede di essere soddisfatto. Spero che questo libro avrà qualche eco in Germania: non solo per ambizione, ma anche perché la natura di questa eco mi permetterà forse di capire meglio i tedeschi, di placare questo stimolo.

Ora smetterò di dire cose grosse e vaghe, e La ringrazio di cuore per il lavoro che ha fatto, e per la diligenza e l'amore con cui lo ha fatto. E' necessario che ci incontriamo: non so se e quando io potrò venire a Berlino, ma se Lei passerà le ferie in Baviera come l'anno scorso, verrò certamente a trovarLa. Mi precisi appena può il periodo della Sua permanenza ad Ettal (o altrove): nel mese di agosto io probabilmente passerò due o tre settimane nelle Dolomiti, quindi non molto lontano. Sono ben lieto, naturalmente, che sull'Impressum compaia la frase "Autorisierte Ubertragung"; ho già scritto ieri in proposito alla Fischer, nella stessa lettera con cui li ringrazio del Kogon finalmente arrivato. Non mi resta che attendere la Sua risposta, sperando che mi porterà buone notizie del libro e di Lei e della possibilità di incontrarci». (Suo Primo Levi)

 

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