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Caso camici, la sinistra forcaiola ci ricasca con Fontana

Carlo Solimene
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Premessa doverosa: il «caso-camici» che ha travolto il governatore della Lombardia Attilio Fontana presenta ancora tantissimi punti da chiarire, nonostante le parole pronunciate ieri dallo stesso Fontana in Consiglio regionale. Il presidente ha parlato di contratto del tutto regolare con la ditta del cognato, la Dama Spa, per la fornitura di 75mila camici, e ha giustificato con un suo moto di coscienza la scelta di trasformare la vendita in donazione e poi di risarcire parzialmente con soldi propri l’azienda in questione. Ma non ha spiegato perché abbia negato all’inizio di essere a conoscenza dell’affare, né perché abbia tenuto nascosto il suo gesto di generosità (effettuato da un conto in Svizzera), né, infine, perché la donazione si sia «fermata» ai primi 50.000 camici e gli altri 25mila, invece, non siano ancora nelle disponibilità della Regione.

L’impressione che se ne trae, in attesa che la giustizia faccia il proprio corso riguardo l’ipotesi di reato di frode in pubbliche forniture a carico del governatore, è che Fontana abbia commesso una serie di ingenuità politiche prima ancora che dei crimini.

Fatta la premessa, però, viene da chiedersi se sia fondata o meno la richiesta delle opposizioni di un passo indietro del governatore. E qui, più che richiamarsi al sacro principio giuridico della presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva, sarebbe utile ricordare una serie di precedenti che hanno dimostrato come condannare preventivamente un amministratore in base a una semplice indagine rischi di rivelarsi un errore.

Caso ha voluto che proprio in questi giorni siano state archiviate le accuse che, dieci anni fa, portarono alle dimissioni dell’allora sindaco di Parma Pietro Vignali, del centrodestra. I magistrati ipotizzarono, tra le altre cose, che il primo cittadino avesse assunto 18 dirigenti in modo clientelare, amici degli amici, con un danno erariale di oltre tre milioni di euro. Dieci anni dopo si è risolto tutto con un nulla di fatto e Vignali ha anche ottenuto la riabilitazione del tribunale. La poltrona, invece, no, essendo finita alle elezioni successiva al grillino (poi ex) Federico Pizzarotti. Ovviamente al culmine di una campagna elettorale segnata dall’urlo «onestà».

Ma a suggerire maggiore prudenza alla sinistra dovrebbero essere anche i casi che hanno visto colpiti gli stessi amministratori del Pd: accusati, costretti alle dimissioni e poi assolti quando il danno al sistema democratico (decidono gli elettori, non i giudici) era stato già fatto. Emblematica, da questo punto di vista, la vicenda di Vasco Errani, che nel 2014 si dimette da governatore dell’Emilia Romagna dopo essere stato condannato in primo grado per falso nell’ambito dell’inchiesta «Terremerse» e poi, due anni dopo, viene assolto definitivamente dalle stesse accuse.

La lista dei politici condannati dai media e assolti dai tribunali sarebbe lunghissima, e ancora viene da chiedersi perché la sinistra non abbia imparato la lezione quando persino l’amatissimo governo Prodi II fu vittima dello stesso perverso meccanismo. Nel 2008 l’allora Guardasigilli Clemente Mastella (e la moglie Sandro Lonardo) finirono al centro di un’inchiesta per concussione che, nove anni dopo, si risolse con i magistrati che stabilirono come i fatti non costituissero reato. Nel frattempo, però, il terremoto politico causò l’addio di Mastella alla stessa maggioranza e il termine dell’esperienza di governo del Prof.

Sono le conseguenze velenose del giustizialismo. Che - per concludere - potrebbe essere assai più nobile se riguardasse non solo i nemici ma anche gli amici. Perché, si potrebbe chiedere ai grillini, Fontana sì e la Raggi no? Mistero. Nel dubbio, probabilmente, è sempre meglio lasciar decidere gli elettori.

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