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Fondi europei, il ricatto dell'Ue ci rende un Paese a sovranità limitata

Riccardo Mazzoni
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Mischiare storia e cronaca non è mai un esercizio facile, perché può condurre a paragoni e semplificazioni del tutto impropri. Ma in questi giorni non si fa altro che parlare del Recovery Fund, delle sue similitudini col Piano Marshall e degli inevitabili effetti sulla politica italiana. L’equazione è la seguente: dopo la seconda guerra mondiale si affermò la cosiddetta “Dottrina Truman”, ossia il contrasto all’ideologia comunista attraverso l’impegno a “sostenere popoli liberi che si oppongono a tentativi di oppressione da parte di minoranze armate”.

Il passo successivo fu, appunto, l’European Recovery Program, più noto – appunto - come Piano Marshall, per creare un’area antisovietica economicamente unitaria e inserita in un progetto di nuovo ordine europeo e internazionale. Ecco, il Recovery Fund, anche se varato non dagli Usa, ma dall’Europa e in condizioni storiche del tutto diverse, avrebbe - secondo una narrazione conformista ormai consolidata – le stesse finalità politiche: allora servì da deterrente per tenere lontana la minaccia esterna comunista, oggi per arginare quella sovranista, che è invece endogena in quanto nata – del tutto democraticamente - all’interno di molti Paesi dell’Unione europea.

L’Italia, per la sua collocazione geografica, è da sempre il Paese più esposto alle conseguenze delle crisi internazionali: per decenni ha dovuto fare i conti col partito comunista più forte d’Occidente, e ora il fronte sovranista supera costantemente il 40 per cento dei consensi. Per cui Renzi, che del governo rossogiallo è stato il padre putativo, ieri ha potuto rivendicare l’alleanza delle quattro sinistre come un’ancora di salvezza per l’Italia, che se governata da Salvini e Meloni “non avrebbe mai ottenuto” i 209 miliardi di prestiti e grant strappati da Conte nell’ultimo Consiglio europeo. Ma se questo fosse vero, significherebbe che l’Italia resta una democrazia a sovranità limitata. La conventio ad excludendum che nella prima repubblica tenne il Pci fuori dall’area di governo per mantenere l’Italia nella rotta occidentale, insomma, ora tornerebbe in auge contro Lega e Fratelli d’Italia per non allontanarla dall’Europa. Tanto che si parla insistentemente di “alleanza Ursula” con dentro Forza Italia – e di un ritorno alla legge proporzionale - proprio per isolare il cartello sovranista relegando quei voti in un perenne frigorifero.

Un ragionamento profondamente antidemocratico e per di più anche contraddittorio. Della coalizione “europeista” fa infatti parte il Movimento Cinque Stelle, che non solo ha intrattenuto contatti imbarazzanti perfino con i gilet gialli, ma che al Parlamento di Strasburgo – a parte il sì tattico all’elezione della Von der Leyen – vota quasi costantemente insieme a Lega e Fdi, come ad esempio è avvenuto sul Mes, che pure è considerato dal Pd la prova del nove dell’europeismo.

Legittime dinamiche politiche, si dirà, visto che la sinistra è maestra di trasformismo quando ci sono in ballo le poltrone. Ma l’Italia è un’eccezione mondiale anche per l’uso politico della giustizia, che si può considerare come il braccio armato della conventio ad excludendum. Quando la sinistra additava Berlusconi come un pericolo per la democrazia, infatti, le procure si scatenarono fino a che non arrivò la sentenza della Cassazione che lo estromise dal Parlamento. Ora che il pericolo è Salvini, il copione si sta ripetendo in modo inquietante con una raffica di inchieste che puntano direttamente al cuore della Lega. Chiunque, mietendo troppi consensi popolari, minaccia la pretesa della sinistra di restare o di tornare al governo, diventa pavlovianamente un bersaglio del potere giudiziario. La sovranità nazionale, col vincolo esterno dell’Unione europea e con quello interno della magistratura, viene così ridotta a una mera finzione. Ma che democrazia è mai questa?

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