aiuti col trucco

Il Recovery Fund? Ci hanno fregato

Franco Bechis

C’è una frasetta sfuggita quasi a tutti nel testo dell'accordo europeo sul Recovery Fund, ma è la più insidiosa inserita in quel meccanismo, e da sola è una doccia gelata su molti entusiasmi italiani del giorno dopo. La frase è questa: «La valutazione positiva delle richieste di pagamento sarà subordinata al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali».

 

  

Che cosa significa? Un po' quel che si è lasciato sfuggire il commissario italiano Paolo Gentiloni: che Giuseppe Conte e il suo governo non vedranno un solo euro di aiuto da qui alla prossima estate. Ma anche questa potrebbe essere una valutazione ottimistica. Perché non sono poche le procedure e i controlli previsti per erogare i 209 miliardi che il governo italiano ha annunciato di avere incassato (81,4 di sovvenzioni e 127,4 di prestiti) e lette tutte insieme sembrano addirittura di più di quelle originariamente stabilite dal Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e ci riferiamo a quello vero, non alla sua versione edulcorata per i finanziamenti alla Sanità. Man mano che passano i giorni e si esaminano le carte, il Recovery Fund sembra assai più indigesto di come era stato raccontato.

Per cercare di metterlo in moto l’Italia dovrà prima presentare il suo piano di riforme, che dovrà aderire alle raccomandazioni sulla propria finanza pubblica ricevute dalla commissione europea nel 2019 e nel 2020 e quindi in qualche modo essere legato a quel patto di stabilità che è sospeso solo per quest’anno e senza interventi tornerebbe in vigore dal primo gennaio 2021. Quel documento italiano deve essere inviato a settembre alla commissione europea che lo deve analizzare compilando una sorta di pagella, con tanto di voti ad ogni sua parte.

La pagella deve essere compilata in questo modo: «Il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro. Anche l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale rappresenta una condizione preliminare ai fini di una valutazione positiva». I voti debbono arrivare entro fine novembre 2020, e da questi per altro dipende la vera cifra che spetterebbe all’Italia.

 

Perché come il Recovery Fund si basa su stanziamenti «fino a 750 miliardi di euro», anche quei 209 miliardi sono un tetto massimo a cui può aspirare l’Italia, non una certezza messa in tasca come è stato fatto credere fin qui. Voti bassi a quel piano vuole dire molti meno fondi a disposizione nel primo biennio. Ma il giudizio della commissione non è il solo necessario. Quelle pagelle vengono infatti trasmesse al consiglio europeo, che le deve approvare a maggioranza qualificata (15 paesi su 27 che rappresentino però almeno il 65% della popolazione europea) entro gennaio 2021. Se i singoli voti vengono ritoccati verso il basso in questo passaggio, le risorse a disposizione dell’Italia scendono. Se vengono ritoccati verso l’alto invece salgono. Il Recovery prevede un pre-finanziamento del 10% della somma dovuta per il singolo anno impegnabile dai vari paesi nelle proprie manovre di bilancio. Il governo italiano quindi la impegnerà prima di conoscere quelle pagelle nella manovra 2021. Ma quei soldi materialmente non saranno ancora stati erogati, quindi per avviare le opere dovranno essere anticipati di cassa dal ministero dell’Economia italiano.

E allora quando arriveranno quei fondi? La risposta è proprio nella frasetta traditrice: «La valutazione positiva delle richieste di pagamento sarà subordinata al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali». Tradotto in pratica: l’Italia prima dovrà rispettare le condizioni della commissione europea sulle riforme, poi potrà vedere i soldi solo dopo il giudizio sullo stato di avanzamento intermedio dei programmi che le sono richiesti. Quindi Roma sarà sotto esame della commissione e del consiglio Ue per i primi sei mesi del 2021, e fin lì non vedrà ancora un euro. A luglio dell’anno prossimo la commissione chiederà «il parere del comitato economico e finanziario in merito al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi». Poi- e non c’è un limite di tempo previsto, «il comitato economico e finanziario si adopera per raggiungere un consenso». Potrebbe esserci, magari anche prima della pausa di Ferragosto. Ma gli esami potrebbero non finire lì. Perché a quel punto il Mark Rutte di turno potrebbe scuotere la testa: «Non condivido il giudizio. L’Italia non sta affatto facendo le riforme che le abbiamo chiesto. Allora non possiamo erogare un centesimo». Basta il Rutte qualsiasi per bloccare l’erogazione dei fondi al consiglio europeo che dovrebbe dare il via libera. A quel punto la questione sarebbe rinviata un consiglio europeo successivo. In questo caso «la Commissione non prenderà alcuna decisione relativa al soddisfacente conseguimento dei target intermedi e finali e all’approvazione dei pagamenti fino a quando il prossimo Consiglio europeo non avrà discusso la questione in maniera esaustiva». Una decisione- positiva o negativa- dovrebbe "di norma" arrivare entro il mese di ottobre, ma naturalmente ogni regola ha le sue eccezioni.

Quei soldi dunque sono un percorso ad ostacoli e per averli bisogna trattare in continuazione sia con gli organismi europei che con i possibili rompiscatole che possono fare tardare la loro erogazione. E l’Italia comunque deve ridurre il proprio deficit e rapporto fra debito e pil per potere avere le sovvenzioni e i prestiti. È perfino peggio del Mes tradizionale (figurarsi quello per la Sanità): lì si tratta subito in Eurogruppo il memorandum di intesa, ma poi accade l’esatto opposto del Recovery, con i soldi che arrivano nelle casse del paese che li ha richiesti e i controlli che si fanno dopo sulla qualità della spesa. Letto tutto il labirinto del Recovery Fund, quasi quasi ci conviene il Mes.