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Monti apre l'agenda dello statista emulando lo spirito di De Gasperi

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Il premier uscenteIl fantasma di Alcide De Gasperi ha aleggiato nella conferenza stampa tenuta ieri mattina da Mario Monti per fare un bilancio della sua esperienza di governo, per illustrare la sua «agenda» e dare un segnale delle sue intenzioni. ha, infatti, evocato, lo statista trentino. Lo ha ricordato come un protagonista, sobrio ma fattivo, di un momento particolarmente difficile della storia del nostro Paese quando si trovò a dover affrontare il tema spinoso del trattato di pace. E lo ha citato, ancora, ricordando una frase che a lui viene comunemente attribuita e che, sua o non sua, ne costituisce tuttavia il lascito morale, quasi il riconosciuto sigillo di un preciso impegno politico e governativo: «Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione». Due citazioni pienamente calzanti, fatte quasi di passaggio e con sobrietà. De Gasperi si trovò alle prese con la necessità urgente di «ricostruire» il Paese partendo dalle macerie morali e materiali di una guerra perduta e con il compito di restituire alla «nuova» Italia credito e prestigio internazionale. Monti, fatte naturalmente le debite differenze storiche, si è ritrovato a vivere in una situazione, per certi versi, analoga. Chiamato dal capo dello Stato a guidare un governo tecnico di emergenza nel bel mezzo di una guerra finanziaria internazionale che stava distruggendo il Paese e che lo aveva già condotto sull'orlo del baratro, si è adoperato, per un verso, per mettere in sicurezza i conti dello Stato e, per altro verso, per recuperare la credibilità e l'affidabilità internazionali. De Gasperi guidò i governi del «centrismo» durante l'intera prima legislatura repubblicana e, giunto alla vigilia delle elezioni, giocò la carta della cosiddetta «legge truffa» con il proposito di rafforzare l'area di «legittimità democratica» per garantire un futuro stabile al Paese. Lo fece pensando da statista e non da politico: e poco conta il fatto che, poi, egli abbia perduto la partita. Quel che rileva, ai fini del giudizio storico, non è la durata della permanenza nella stanza dei bottoni, ma l'entità dei risultati raggiunti: cosa che, evidentemente, sfugge alla sensibilità politica di Berlusconi, il quale, commentando nella trasmissione di Giletti il richiamo a De Gasperi, ha rivendicato il fatto di essere stato, lui, l'uomo che più a lungo, nella storia repubblicana, ha occupato la poltrona di Palazzo Chigi. Monti, dal canto suo, ha presieduto il governo tecnico di emergenza per un anno soltanto, o poco più, e infine, giunto alla conclusione di questa esperienza per volontà di Berlusconi, ha fissato alcuni paletti programmatici nella sua famosa «agenda» e, soprattutto, ha indicato condizioni precise per la sua discesa in campo, che ne mostrano personalità (e statura) non di un politico interessato ai risultati immediati ma di un politico con l'occhio volto al futuro del Paese, di uno statista, cioè. La dichiarata disponibilità di Monti alla premiership, accompagnata però dalla esplicita non autorizzazione a utilizzare il suo nome da parte di formazioni politiche, fa capire come egli abbia in mente un disegno ben preciso, che può rivelarsi gravido di notevoli conseguenze anche sul piano politico-istituzionale. Monti ha indicato di fatto - come condizione imprescindibile per il suo diretto impegno politico, al di là di quello collegato al ruolo di senatore a vita - l'accettazione della sua «agenda» programmatica (o, se si preferisce, del suo «manifesto») da parte di coloro i quali, al di là della loro provenienza partitica, volessero impegnarsi insieme con lui nell'impresa di completare il cammino del risanamento e di centrare l'obiettivo dell'ammodernamento del Paese. Si tratta, piaccia o non piaccia, di una vera e propria rivoluzione nella storia e nella prassi della lotta politica nell'Italia repubblicana. Durante gli anni della prima repubblica, alle elezioni si presentavano tanti partiti ognuno dei quali con un proprio programma destinato, sempre e comunque, a non essere «programma di governo»: quest'ultimo, infatti, veniva fuori, a urne chiuse, dalle trattative fra le forze politiche vincitrici ed era frutto di una mediazione fra i loro singoli programmi. Durante la seconda repubblica si ebbe l'impressione che i «programmi delle coalizioni» contrapposte potessero diventare veri e propri «programmi di governo». I fatti si occuparono ben presto di smentire questa illusione perché le coalizioni, di centro-destra o di centro-sinistra, non erano a tal punto coese e omogenee da poter garantire una effettiva osservanza del programma elettorale. Le condizioni poste da Monti rovesciano questa prassi storica. Prima il programma, la piattaforma, l'«agenda», insomma - esse stabiliscono - e, poi, la nascita di una forza politica. In tale rovesciamento è la dimensione «rivoluzionaria» di una proposta, che consentirebbe di superare le barriere ideologiche (sopravvivenza residuale di un passato morto e sepolto) e di prospettare la nascita di una forza politica, quale che ne sia la forma organizzativa, nuova e moderna nella quale potrebbero ritrovarsi energie provenienti da settori diversi e fino ad ora contrapposti dello schieramento politico nazionale: dal mondo dei «rottamatori» renziani a quello dei «delusi» del Popolo della libertà. È comprensibile come la carica innovativa della proposta Monti possa suscitare apprensioni nell'establishment politico espresse in forme diverse: le perplessità manifestate dal Pd sulla opportunità che egli abbandoni una posizione super partes o i timori del Pdl che egli possa diventare un forte polo d'attrazione o, infine, l'insoddisfazione mal mascherata di quei cespugli centristi che speravano di poter utilizzare liberamente il nome del premier. Il presupposto politico di questa proposta Monti - chiamiamola pure così - è una sua «vocazione maggioritaria»: se il premier uscente si fosse limitato a concedere il suo nome o a fare un endorsement a favore di una o più forze politiche, che a lui si richiamano, avrebbe fatto una scelta da politico nel senso classico del termine, e non già da politico preoccupato dei risultati di lungo periodo, da statista cioè. Sarebbe divenuto il leader di un partito come altri o, al più, di una coalizione eterogenea che, al suo interno, ha elementi di debolezza: e basta pensare, per averne una prova, alle singolari affermazioni di Vendola sulla natura conservatrice e liberista delle posizioni montiane. Il professore ha scelto una strada diversa, profondamente diversa: l'indicazione di una «agenda» programmatica attorno alla quale ritrovarsi e costruire una maggioranza. È una scelta, dicevamo, a «vocazione maggioritaria». È una sfida politica. Può riuscire o non riuscire. Ma è una sfida.

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