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La legislatura è sprecata Monti non sia l'occasione persa

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Di «sprecata», come l'ha definita lo stesso presidente della Repubblica prima di disporne la chiusura anticipata, potrebbe non esserci soltanto la legislatura finita ieri ufficialmente con lo scioglimento delle Camere elette nel 2008. Una legislatura che non ha prodotto le riforme da troppo tempo attese dagli italiani, a cominciare da quella della legge elettorale, per cui dovremo ancora una volta subire un Parlamento nominato dai partiti con il meccanismo perverso delle liste bloccate. Per quanto il Pd stia cercando di avvolgere furbescamente le sue nel cellofan di primarie usa e getti di fine anno, peraltro al netto di una quota di candidature, cioè di nomine, affidate con un supplemento ulteriore di discrezionalità al segretario, nonché candidato alla guida del governo. Roba semplicemente da voltastomaco. Rischia di essere sprecata, se Mario Monti veramente la rifiuterà, stando alle impressioni e alle voci destinate forse a durare anche dopo la sua conferenza stampa spostata da venerdì ad oggi, l'occasione offerta al presidente del Consiglio dimissionario di scomporre per ricomporre in modo nuovo, su un modello europeo a lui congeniale, l'area che si chiama comunemente dei moderati. Ma che sarebbe meglio chiamare più onestamente dei conservatori, se non si avesse paura di usare un linguaggio franco. Conservatori di solito contrapposti, salvo emergenze, ai progressisti. Fra i quali solo in Italia, a sinistra ma anche a destra, con i conservatori, si ha la disinvoltura di includere i demagoghi. Che sono spesso surrogati dell'estremismo, accettati forse senza rendersi neppure conto della loro pericolosità, spinti dalla necessità imposta da certi sistemi elettorali di fare il pieno dei voti, nella illusione dei leader di turno di contenerne spinte ed effetti. È un rilievo, quest'ultimo, che accomuna oggi in Italia Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani, in ordine rigorosamente alfabetico dei loro cognomi: l'uno alle prese ancora con la Lega, per quanto se ne veda e se ne senta contestata la leadership, e per quanti danni ne abbia subìto l'anno scorso nell'azione di governo, e l'altro con Nichi Vendola. Di cui il segretario del Pd, per quanti sforzi faccia di farlo dimenticare con e nei suoi incontri internazionali per dissipare sospetti e paure, ha voluto paradossalmente aumentare il peso cercandone e ottenendone i voti determinanti nel secondo turno delle primarie sulla candidatura a Palazzo Chigi, pur di prevalere sulle posizioni più genuinamente riformiste e innovatrici di Matteo Renzi. Ma torniamo a Monti. E alla frenata che, speriamo più a torto che a ragione, gli viene attribuita sulla strada duramente contestatagli sia a destra che a sinistra, tra lusinghe quirinalizie e minacce di ritorsioni, di una ricomposizione dell'area dei moderati. O come altro li vogliamo chiamare. Una strada, va detto, che forse lui stesso ha contribuito a complicare con un eccesso non so se più di tatticismo o di garbo istituzionale, politico e persino personale nei riguardi del Cavaliere, non certamente estraneo alla sua pur meritata ascesa italiana e internazionale. Ciò si è verificato dopo lo strappo annunciato il 7 dicembre dal segretario del Pdl Angelino Alfano, mandato da Berlusconi nell'aula di Montecitorio ad annunciare il passaggio dal voto di fiducia all'astensione e l'«esaurimento» dell'esperienza del governo. Monti avrebbe potuto, se non dovuto, opporre una qualche resistenza, politica non fisica. Non tanto cioè per asserragliarsi scompostamente a Palazzo Chigi, quanto per promuovere un chiarimento politico utile in vista delle elezioni comunque vicine. Che già allora si davano come assai probabili, se non certe, per il 10 marzo, con un solo mese di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria del 7 aprile. I contrasti da tempo latenti nel Pdl, divisosi a lungo sui temi delle primarie, connesse alla stessa leadership berlusconiana, e dei rapporti con la Lega, per non parlare di altri problemi, esplosero nella stessa aula della Camera con l'improvviso annuncio del sostanziale disimpegno dalla maggioranza fatto da Alfano. Prima cinque e poi dieci deputati, in aperto e per alcuni anche dichiarato dissenso dalla posizione del partito, continuarono a votare la fiducia al governo. Altri cinquanta, o poco meno, evitarono non casualmente di partecipare alle votazioni. Espressioni di dissenso, sia pure minori di numero, si colsero nelle file del Pdl anche al Senato. Ebbene, in quella situazione Monti avrebbe potuto- anzi dovuto, ripeto- andare al Quirinale a dimettersi sì, ma anche a chiedere al capo dello Stato -o questi avrebbe dovuto disporre- un rinvio alle Camere per un dibattito parlamentare di chiarimento e certificazione. Che sarebbe stato di chiarimento e certificazione, in particolare, della situazione interna del maggiore partito ancora rappresentato in Parlamento. Un dibattito dal quale in teoria, ma non solo in teoria, avrebbe potuto emergere la permanenza di una maggioranza a sostegno del governo. E con essa anche la possibilità di risparmiare alla fine della legislatura quell'accelerazione «brusca» lamentata pubblicamente, negli auguri natalizi alle autorità dello Stato convenute nei giorni scorsi al Quirinale, da un presidente della Repubblica visibilmente amareggiato. Invece Monti, salvaguardando di fatto la composizione più unitaria possibile del Pdl, cui Berlusconi si è comprensibilmente affrettato a provvedere con un altissimo tasso di abilità politica, bisogna riconosciorglielo, andò l'8 dicembre da Giorgio Napolitano prenotando dimissioni «irrevocabili», in attesa solo dell'approvazione definitiva e dovuta della legge di cosiddetta stabilità, ex finanziaria. E raccogliendo, se non il consenso, la «presa d'atto» e la «comprensione» del capo dello Stato. Che ancora ieri, al termine delle procedure per lo scioglimento delle Camere dopo la formalizzazione delle dimissioni del presidente del Consiglio, ha ritenuto di dovere assicurare i critici o i perplessi che non c'era proprio altro da fare. Ed ha dovuto anche impegnarsi con i capigruppo parlamentari del Pdl a trasmettere a Monti le loro proteste o preoccupazioni, dietro i richiami alla dovuta «terzietà» o neutralità nella gestione governativa delle elezioni anticipate, per la possibilità che egli riprenda e magari concluda positivamente il progetto di federare in qualche modo attorno a sé i moderati che non si riconoscono nei due maggiori blocchi in lizza verso le urne. È una preoccupazione, quest'ultima del Pdl, speculare e neppure nascosta a quella del Pd. Ma che purtroppo rischia di condannare il Paese, fra l'altro, ad un risultato elettorale per niente risolutivo. E ad una nuova e più grave fase di instabilità istituzionale, di confusione politica e di conseguente crisi economica, naturalmente.

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