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Il giudizio della Corte preceda e non segua la raccolta di firme

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Attenti a non lasciarci coinvolgere nella bagarre politica dopo il no della Corte Costituzionale ai referendum abrogativi in materia elettorale promossi nella scorsa estate con la raccolta di più di un milione di firme. Di cui Antonio Di Pietro ha sopravvalutato a tal punto il significato, anche per averne personalmente pescate moltissime, da scambiarle per un'arma da usare contro chiunque. Anche contro il presidente della Repubblica, al quale i giudici costituzionali avrebbero voluto fare un piacere rimuovendo i referendum dal percorso già impervio del governo tecnico di Mario Monti. Che i contrari alle prove referendarie, nascosti un po' in tutti i partiti, anche in quelli formalmente schierati a favore, o solo agnostici, avrebbero potuto mettere in crisi per rinviarle con il ricorso alle elezioni anticipate. Di Pietro, diavolo di un uomo, commette contro Giorgio Napolitano lo stesso errore, se non più grave ancora, di quello compiuto da Silvio Berlusconi nel 2009, quando l'allora presidente del Consiglio vide e denunciò lo zampino del Quirinale nella bocciatura, da parte della Corte Costituzionale, dello scudo giudiziario garantitogli dal cosiddetto lodo Alfano. Su cui il povero Napolitano ci aveva invece messo la faccia, e non solo la firma, promulgandolo rapidamente l'anno prima con una inusuale dichiarazione motivata, nonostante le diffide proprio di Di Pietro e di altri oppositori del Cavaliere. La storia referendaria italiana è ormai piena di quesiti ammessi e non su leggi elettorali, su cui si sono puntualmente rovesciati i classici fiumi d'inchiostro per scriverne tutto il bene o il male possibile, secondo i gusti accademici, per i cultori della materia, o gli interessi politici, per i movimenti e i leader che li avevano promossi o contrastati. Da questi fiumi d'inchiostro, e di parole, il sornione Giulio Andreotti, il politico italiano di più lungo corso, dal 1991 senatore a vita, è stato forse l'unico a volersi tenere sempre fuori dopo avere inutilmente steso non un velo, ma una coperta di dubbio sulla legittimità dei referendum abrogativi, totali o parziali, di leggi elettorali. Che, secondo le sue ricerche di archivio e i suoi ricordi personali, risalenti agli anni dell'Assemlea Costituente, quando già egli aveva cominciato a collaborare con l'allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, avrebbero dovuto rientrare fra le materie escluse dal ricorso al referendum, assieme alle «leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali» elencate nell'articolo 75 della Costituzione. Andreotti ricordava e verificò, in occasione del referendum contro le preferenze, che peraltro contribuì nel 1991 a indebolire la maggioranza del suo ultimo governo, che una proposta di modifica di quell'articolo per escludere anche le leggi elettorali dalle impugnazioni referendarie fu approvata dall'Assemblea Costituente. Ma curiosamente la modifica sfuggì ai funzionari incaricati del cosiddetto «coordinamento» normativo e rimase fuori dal testo promulgato della Costituzione. Il diavolo evidentemente ci aveva messo del suo. E rimediarvi, al punto in cui l'aveva scoperto quel guastafeste di Andreotti, non era più possibile. O così si ritenne per non far venire una crisi irreparabile di nervi ai referendari mobilitati. Tanto meno si può riparare adesso, naturalmente. La prescrizione, chiamiamola così, è ulteriormente maturata. Ma in compenso si potrebbe con un po' di buon senso correggere la legge di attuazione e disciplina del referendum per stabilire che il giudizio di ammissibilità dei quesiti da parte della Corte Costituzionale preceda e non segua la raccolta delle firme. Ciò eviterebbe fatiche inutili, oltre che dispendiose. E scongiurerebbe attese sbagliate. Sulle quali chiunque, e non solo Di Pietro, può poi imbastire i soliti, devastanti processi alle intenzioni dei giudici costituzionali, del presidente di turno della Repubblica e di quanti altri. Sarebbe un intervento, ripeto, di buon senso, ma forse proprio per questo impossibile in un Paese che può ben dividere con il governo l'aggettivo «strano» assegnatosi da Monti qualche giorno fa in televisione.

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