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La destra e la voglia di cambiare. Ecco l'eredità di Berlusconi

Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi

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La decisione di Silvio Berlusconi di dimettersi dopo l'approvazione della legge di stabilità e non ricandidarsi sembra preludere alla fine di un ciclo ventennale. Tuttavia, se l'uomo Berlusconi lasciasse la politica resterebbe comunque quanto egli lascia alla politica italiana. A me sembra che l'eredità duratura del ventennio berlusconiano possa essere sintetizzata in tre punti. Vediamo. Anzitutto, Berlusconi con la sua discesa in campo ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che la maggioranza degli elettori italiani è di centrodestra, le sinistre, anche se complessivamente considerate, sono solo una minoranza. Questo è provato non solo dalle vittorie elettorali del centrodestra (1994, 2001 e 2008) ma anche dalle «sconfitte». Nel 1996, come riconobbe persino D'Alema, il centrodestra prese più voti del centrosinistra e, quanto alla «vittoria» di Prodi nel 2006, non credo che definirla funambolica sia fazioso. Il secondo e più importante lascito dell'era berlusconiana è che la maggioranza degli italiani non ama l'esistente, non vuole che sia gestito, vuole che sia cambiato e vuole un cambiamento liberale, che riduca l'invadenza pubblica, le tasse, le spese e il potere enorme attribuito dall'esistente alla classe politico-burocratica. Il tema di Berlusconi è sempre stato lo stesso sia quando ha vinto sia quando ha perso: meno pubblico, più privato, meno spesa pubblica più spesa privata, meno sprechi pubblici più investimenti privati. Una rivoluzione liberale appunto. La maggioranza degli elettori ha sempre detto sì a questa scelta. Che poi non si sia non dico realizzata ma nemmeno avviata è un altro discorso, ma resta lì come agenda per i governi a venire. La terza eredità è solo indirettamente attribuibile a Berlusconi, che l'ha solo fatta emergere. L'alternativa al centrodestra non esiste. Gli altri sono fin qui stati tenuti dall'antiberlusconismo ma non hanno nulla in comune: nel 1996-2001 hanno cambiato presidente del Consiglio quattro volte (Prodi, D'Alema 1, D'Alema 2 e Amato) per poi candidare un quinto, Rutelli. Niente leader condiviso quindi, né tanto meno un programma comune. Oggi all'opposizione stanno Fini, Casini, Di Pietro, Bersani, Vendola, Pannella e chi più ne ha più ne metta. È pensabile che quest'assortito arcipelago di anti-Berlusconi possa avere punti programmatici comuni? A me non sembra: coesistono proporzionalisti e maggioritari, talebani cattolici di destra e di sinistra, mangiapreti, riformisti e velleitari. Uscito Berlusconi di scena cosa mai potrebbe tenerli assieme? Lo dico con dolore perché credo che non è l'esistenza di un governo a rendere democratico un paese (i governi esistono anche nelle dittature) ma l'esistenza di una opposizione; quanto più è coesa, alternativa e credibile l'opposizione tanto più democratico è il paese. Questo non è purtroppo il nostro caso e la colpa non è di Berlusconi ma dei miti otto e novecenteschi che si rifiutano di lasciarci: siamo ancora ricchi di nostalgici di Stalin, orfani di Mussolini, nostalgici di De Gasperi e craxiani irriducibili, che non possono certo mettersi assieme e governare un grande Paese nel XXI secolo. Il futuro quindi richiede anzitutto un centrodestra che continui (o inizi?) la rivoluzione liberale promessa, che riesca a essere credibile e coeso e vinca le elezioni. Ma richiede anche la nascita di una vera opposizione libera dai pregiudizi del passato, unita attorno a un leader e a un programma comune e condiviso a fondo che si prepari a prendere il posto del centrodestra alla guida del governo. Possibile? Certamente sì. Probabile? Non lo so, ma l'imprevedibilità del futuro è condizione necessaria (e forse anche sufficiente) per rendere la vita meritevole di essere vissuta.

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