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Draghi blocca la finanza killer

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Il capo della Bce Mario Draghi

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Forse è veramente il suo momento. Mario Draghi, oggi presidente della Banca Centrale Europea, ha sempre avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Era direttore generale del Tesoro italiano quando nel 1992, con l'Italia in panne, salì a bordo del Britannia, il panfilo della famiglia reale inglese, dal quale partì un processo irreversibile di privatizzazione delle aziende a partecipazione pubblica. E dunque un forte cambiamento dell'assetto economico italiano. Martedì scorso, appena insediato ufficialmente alla Bce, Draghi si è trovato a fronteggiare uno degli attacchi più feroci della speculazione contro l'Italia. E due giorni dopo. Proprio per dare un segnale forte ai mercati ha tagliato il costo del denaro. Una sforbiciata minima. Si poteva fare di più sicuramente, ma l'ex governatore è riuscito con poco a conquistare più riflettori dei capi di governo atterrati in una piovosa Cannes, per decidere come salvare l'euro. Ha dato euforia ai mercati che hanno chiuso con i fuochi d'artificio e lo champagne. Non solo. È riuscito a trovare l'unanimità nel board della Bce su un'azione di allentamento monetario altamente ostracizzata dai falchi tedeschi. Ieri il membro dimissionario del board Juergen Stark ha detto addirittura che sarebbe stato proprio lui, il rigorista tedesco, a proporre il taglio del costo del denaro. Quasi un miracolo, insomma. Indotto certo dai dati non rassicuranti che sforna l'economia teutonica, non ultimo il 7% di disoccupati, che impensierisce non poco la Merkel. La difesa del supereuro, emulo del supermarco, bandiera ideale issata sul Bundestag, è stata ammainata in fretta. Forse ora una svalutazione pilotata della moneta unica darà la scossa al sistema produttivo europeo che sulla domanda interna può veramente contare poco. Anche se per molti osservatori come il Financial Times e il Wall Street Journal Draghi sarebbe stato poco coraggioso. Bene l'inversione a U sui tassi ma si poteva fare di più. Ieri Draghi, intanto, ha compiuto un altro piccolo miracolo. Ha lasciato il Fsb (Financial Stability Board) nato all'indomani della crisi post Lehman Brothers per prevenire le crisi di sistema e ha incassato l'approvazione da parte del G20 delle regole per mettere in sicurezza le banche «troppo grandi per fallire» quelle capaci di creare «conseguenze catastrofiche» sul sistema e capaci di cadere sulla spalle dei contribuenti. Uno scenario che alcuni paventano possibile con l'inasprirsi della crisi. Sono 29 quelle indicate nella lista provvisoria, fra cui l'italiana Unicredit, che dovranno introdurre regole dal prossimo anno e livelli di capitale aggiuntivi rispetto alle soglie di Basilea3 dal 2016. Il presidente della Bce ha chiuso brillantemente il mandato iniziato al London Summit del 2009 quando ricevette dal G20 il mandato di trasformare l'allora Fsf in un organismo più stringente che ora sarà rafforzato e affidato alla guida del governatore della Banca Centrale del Canada, Mark Carney. Draghi ha portato a compimento un'esperienza con successi, come sulle remunerazioni ai manager, e qualche battuta d'arresto vista la forte resistenza del sistema finanziario e di alcuni stati a cambiare. Missione compiuta. O quasi visto che il Fsb secondo il presidente Bce dovrà divenire «più indipendente», «più chiaro nelle comunicazioni» e allarmi con una propria personalità giuridica per stare alla pari di altre grandi istituzioni conservando però flessibilità e carattere tecnico. Ora, dopo forti resistenze del sistema bancario internazionale la lista, preliminare, delle 29 banche sistemiche redatta dal Fsb che dovranno avere requisiti di capitale più stringenti a partire dal 2016, c'è. In particolare le banche dovranno iniziare a seguire le nuove regole, anche in tema di governance, e gestione dei fallimenti a partire dal 2012 mentre le nuove soglie di capitale inizieranno dal 2016 in maniera progressiva fino al 2019. Il meccanismo prevede capitale aggiuntivo rispetto alle regole già stringenti di Basilea3 fra l'1 e il 2,5% a seconda della rilevanza sistemica dell'istituto, stabilita in base a cinque parametri (dimensioni, livello di interconnessione, attività globali, complessità e grado di difficolta di sostituzione delle operazioni). Draghi vive dunque un momento d'oro. Fosse rimasto in Italia sarebbe stato uno dei migliore candidati per guidare un governo tecnico invocato da più parti. Il presidente Napolitano avrebbe sicuramente gradito. Certo non avrebbe avuto un partito. Ma un nascente polo centrista con pezzi di Pdl, scajoliani, Udc, e parti di Pd. Magari con il suo collega di banco al collegio dei gesuiti Massimo di Roma e una benedizione d'Oltretevere avrebbero fatto il miracolo Proprio quelli che in questo momento a Draghi riescono bene.

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