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di FRANCESCO DAMATO Il pur simpatico ex presidente del Senato Franco Marini si è assunto il compito della narrazione più comica, o surreale, dell'attesissima riunione della direzione del Pd, ieri, quando ha dichiarato ai cronisti, testualmente: «La

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Tuttoquindi sarebbe stato e sarebbe in discussione nel maggiore partito di opposizione, a cominciare dalla linea politica, fuorché la leadership bersaniana. Ma ciò da solo è un paradosso perché un segretario che si rispetti, almeno in un partito che si considera orgogliosamente diverso dagli altri a pretesa conduzione monarchica, dovrebbe distinguersi ed essere riconosciuto per la sua linea politica. Se questa non c'è, neppure il segretario c'è. Se questa non è condivisa, o è più criticata che condivisa, il segretario non può sentirsi sicuro. Pure lui, e non solo il partito, è "azzoppato", per ripetere un suo aggettivo di ieri. D'altronde, la parola "dimissioni" ha fatto capolino in direzione. L'ha scritta quell'impertinente di Arturo Parisi nella parte non letta ma ugualmente depositata del suo intervento. In cui egli ha denunciato impietosamente il contrasto fra le distanze, per non dire di più, prese da Bersani dalla proposta di referendum elettorale nella riunione di direzione svoltasi nel mese di luglio e il milione e duecentomila firme raccolte poi dai referendari, spesso in banchetti allestiti durante e nelle feste del partito. Un contrasto così stridente fra la linea del segretario e la pancia, o militanza, del movimento non si poteva francamente immaginare. Ed è difficile fare finta di nulla. O nasconderlo come la polvere sotto un tappeto: per esempio, quello del rinvio non casualmente annunciato, a data peraltro indeterminata, delle primarie e conseguente elezione dei segretari delle federazioni commissariate del partito: dalla Calabria al Lazio. Sarebbe «inopportuno uno scontro», si è fatto scappare nella sua relazione Bersani tradendo la consapevolezza delle tensioni interne, subentrate all'euforia primaverile per i risultati delle elezioni amministrative e dei referendum su acqua, nucleare e legittimo impedimento processuale del presidente del Consiglio, anch'essi preparati nella totale indifferenza, se non ostilità, sua e del partito. Chiamato da un diffidentissimo Walter Veltroni a pronunciarsi in modo «chiaro e inequivocabile» sulla più stringente attualità politica, Bersani ha detto che «il nostro orizzonte sono le elezioni, ma non ci sottraiamo ad un governo di emergenza». Pensava, il furbo, di essersela cavata. Invece Veltroni, e con lui tanti altri, avrebbe gradito sentirgli dire che l'orizzonte del partito è il governo di emergenza, o «di responsabilità», come preferisce chiamarlo l'ex segretario, perché di elezioni anticipate non sarebbe il caso neppure di parlare senza dare l'impressione di volerle più di ogni altra cosa. Al pari dello scomodissimo e debordante alleato Nichi Vendola, da cui Beppe Fioroni, Paolo Gentiloni ed altri hanno invitato a distaccarsi per non approdare all'antieuropeismo dei suoi comizi. C'è tuttavia un problema a monte di tutto questo, che Bersani è stato l'unico a porsi e a porre: come allontanare da Palazzo Chigi un ostinatissimo Silvio Berlusconi. Che vi è «inchiodato perché l'Italia si è inchiodata a lui», ha riconosciuto il segretario del Pd con disarmante sincerità, e impotenza, inchiodando a sua volta alla realtà critici ed avversari interni.

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