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Un milione di firme non significano voto anticipato

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Il successo registrato dalla raccolta di firme per l'abrogazione della legge elettorale non può rimanere senza risposta dal Parlamento. Se le forze politiche si comportassero come se niente fosse accaduto, certificherebbero la loro condanna davanti al corpo elettorale una cui parte considerevole ha inteso inviare un messaggio inequivocabile a chi ha l'obbligo, a questo punto, di cambiare la legge elettorale, la peggiore della storia repubblicana. In un Paese normale sarebbe lecito attendersi, senza ulteriori indugi, che i rappresentanti del popolo si dessero da fare immediatamente per esaudire un bisogno diffuso e limitare il discredito di cui godono nel Paese. Ma da noi, dove il più delle volte le indicazioni dei cittadini vengono aggirate o archiviate con protervia, è quasi sempre necessario ricordare ai partiti e ai gruppi parlamentari che il referendum è una cosa fin troppo seria per gabbarlo e non soltanto perché scritto nella Costituzione, ma come strumento principe della sovranità popolare. Dunque, se oltre un milione e duecentomila cittadini, in rappresentanza di un numero infinitamente più grande di non-firmatari perché impossibilitati ad esprimere il loro consenso sulla proposta abrogativa, si sono pronunciati per un cambiamento della legge elettorale, è bene che alla pressante richiesta si dia immediatamente seguito orientando la riforma nel senso indicato dai quesiti. Lo prescrive la legge, lo consiglia il buon senso. A nessuno, insomma, venga in mente di eludere l'impegno immaginando la scorciatoia delle elezioni anticipate per non varare un provvedimento che taglierebbe (non radicalmente, purtroppo) le mani alla partitocrazia nella determinazione della composizione del Parlamento dove, nelle due ultime legislature, è stato convogliato di tutto, e non centro il meglio, grazie al potere di nomina delle segreterie dei partiti che del primato della scelta dei cittadini se ne sono bellamente fregati. Tutti, a cominciare da coloro che il «Porcellum» lo vollero fortissimamente e anche quanti finsero di avversarlo, oggi, unanimemente, chiedono un ritorno allo status quo ante o, quanto meno, ad una regolamentazione che giustamente riporti in una dimensione accettabile il rapporto tra eletto, popolo e territorio. Perciò si lasci perdere l'idea di sciogliere le Camere, ipotesi irresponsabile di fronte ad una crisi economico-finanziaria che non può essere certo governata con i comizi e le contrapposizioni frontali in piazza, e ci si ingegni ad approvare una legge nella quale finalmente i cittadini possano vedersi riconosciuto il diritto di mandare in Parlamento chi vogliono. È curioso che siano stati negli ultimi giorni esponenti del centrodestra a vagheggiare il ritorno alle urne per evitare il referendum. Non so se i guai italiani gli abbiano fatto perdere la testa, certo è che non mi sembra abbiano più tanta voglia di ragionare di politica e siano piuttosto inclini a guardare il proprio ombelico. Ma credono davvero che se si dovesse andare a votare tra pochi mesi, con questa legge, riuscirebbero a tutelare se stessi ed i loro famigli? Non sono sfiorati dal pensiero che andrebbero incontro, con tutto il loro schieramento, ad una disfatta dalle proporzioni colossali? E neppure immaginano che c'è bisogno di tempo per tentare di rasserenare il clima generale, fidando anche su una buona legge elettorale, possibilmente bipartisan, per poi affrontare una competizione che nelle condizioni attuali si trasformerebbe in un'ordalia? La speranza è che politici, altrimenti accorti, rinsaviscano. E tengano conto che il bene comune viene prima del loro «particolare». Diversamente l'ira del popolo potrebbe mettere fine bruscamente ai loro patetici sogni di gloria.

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