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La primavera araba non deve sfiorire

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I libici si sono sbarazzati del regime di Gheddafi. La sanzione ufficiale della nuova Libia avverrà a Parigi nella Conferenza internazionale che si terrà il 1° settembre prossimo. È una data significativa. Proprio il 1° settembre del 1969, l'allora capitano Moammar Gheddafi guidava il vittorioso colpo di Stato che poneva fine alla monarchia senussita, costringendo all'esilio il re Idris I, ritenuto troppo asservito all'Occidente. I golpisti si ispiravano all'ideologia nazionalista e pan-araba dal «primo risveglio arabo», quello nasseriano, post-coloniale. Finito il sogno dell'unità araba e dopo alcune bizzarre iniziative, Gheddafi divenne anti-occidentale. Si appoggiò all'URSS, che gli fornì un'incredibile quantità di armamenti. Sostenne i più svariati gruppi terroristici, inclusi l'IRA e l'ETA. I suoi servizi d'intelligence eliminarono gli oppositori del regime ed attaccarono obiettivi americani ed europei. Fu provata la sua responsabilità dell'attentato al volo Pan Am 103 a Lockerbie e del volo UTA 772 nel Sahara. Fu anche sospettato di attentati in Italia. Con la fine della guerra fredda, perse i suoi protettori di Mosca. Divenne allora pan-africano, sovvenzionando generosamente molti governi dell'Africa sub-sahariana. Ma continuò nel suo comportamento megalomane e bizzarro. Prese paura, quando gli USA attaccarono l'Iraq di Saddam Hussein. Pensava che subito dopo toccasse a lui, anche perchè il suo tentativo di procurarsi armi nucleari era ben noto. Sapeva, poi, benissimo di essere isolato nello stesso mondo arabo e di poter essere attaccato senza provocare un caos generale. Gli è capitato con l'estendersi della rivolta in Libia, che gli ha scatenato contro la potenza aerea della NATO. Verosimilmente non se lo aspettava. Pensava di aver acquisito meriti con vari paesi per svariati motivi. Aveva represso in Libia l'islamismo più militante, particolarmente vivo nell'Est del paese. Esso aveva fornito un gran numero di al-qaedisti che avevano combattuto in Iraq contro le forze occidentali. Ricordandosi delle comuni origini nasseriane, sosteneva al-Fatah contro Hamas, figliazione dei Fratelli Musulmani egiziani. Contrastava l'immigrazione clandestina verso l'Europa. Aveva concluso un Trattato di amicizia e cooperazione con l'Italia. Aveva promesso alla Francia di comprare i cacciabombardieri Rafale, proprio quelli che poi hanno effettuato gli attacchi più massicci contro le forze rimastegli fedeli. Era persuaso che nulla potesse sfidare il suo potere, basato sul sostegno di tribù e di clan, non contrastato da istituzioni statali, del tipo di quelle che erano state protagoniste della «rivolta di palazzo» in Tunisia e del «colpo di Stato militare» in Egitto. Le aveva distrutte esercitando un potere di tipo personale. Anche l'esercito, da cui proveniva, era stato neutralizzato a favore delle milizie fedeli al pittoresco dittatore. Le sue bizzarrie avevano convinto l'Occidente che fosse più debole di quanto ha dimostrato, per lunghi cinque mesi di combattimenti con gli insorti e di bombardamenti della NATO. Ora sembra finito. Qualcuno pensa che non lo sia ancora. Ad esempio, la Russia. Dopo aver cercato di mediare tra Gheddafi e gli insorti, Mosca sembra credere ancora ai proclami del colonnello che insiste di non essere stato vinto e che prepara la riscossa. Dmitri Medvedev ha detto che non intende riconoscere il cambio di regime in Libia fino a che la situazione non si sarà del tutto chiarita e non sia stato formato un governo regolare. Non riconosce tale il Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi. In Libia gli scontri non sono finiti. Combattono ancora le milizie pretoriane ed i membri delle tribù - valutati al 10% circa della popolazione - rimaste fedeli a Gheddafi. Intanto, è in corso una caccia all'uomo, per catturare il colonnello. Imprenditori di Bengasi hanno offerto una taglia di 2 milioni di dinari (1,7 milioni di dollari) per la sua cattura. La NATO sta collaborando per individuare dove si trova. Non insiste neppure troppo sulla sua consegna al Tribunale Internazionale. Si è capito benissimo che i libici vogliano fare come gli iracheni, i tunisini e gli egiziani, cioè farlo giudicare da un tribunale libico. Il maggior rischio che si corre non è costituito da Gheddafi, ma dalla possibile anarchia che si potrebbe determinare nella società libica. Il Consiglio Nazionale di Bengasi, pur riconosciuto come legittimo rappresentante del popolo libico da un crescente numero di Stati, ha troppa poco autorità. Probabilmente, non è neppure molto nazionale. Dominano personalità della Cirenaica. Vi fanno parte esponenti del vecchio regime, come il suo stesso capo Jalil, ex-ministro della giustizia di Gheddafi, o il generale Younis, già ministro dell'interno e divenuto capo militare della rivolta, eliminato da elementi jihadisti presenti fra gli insorti, per vendetta contro le repressioni effettuate contro di essi qualche anno fa. Il nuovo regime non si potrà avvalere neppure di una classe burocratico-amministrativa. La sua formazione non può essere improvvisata. Richiederà del tempo. Il programma che il rappresentante internazionale degli insorti, Jibril, ha illustrato a Parigi il 24 agosto ed a Milano il 25, è tanto ottimista da sembrare irrealizzabile: immediata convocazione dei rappresentanti delle città e della società libica, che dovrebbero eleggere entro pochi giorni il comitato per la redazione della nuova costituzione e nominare i membri del governo provvisorio; entro un paio di mesi referendum per l'approvazione della costituzione; entro quattro mesi, elezioni per eleggere il parlamento che nominerà il governo definitivo. L'impresa è ardua, se non impossibile, per le rivalità etniche, regionali e tribali, esistenti in Libia. Inoltre, fa i conti senza l'oste, cioè senza Gheddafi. Non è detto che la sua cattura o eliminazione (meglio!, risolverebbe un certo numero di problemi e, soprattutto, non gli consentirebbe di fare propaganda contro quelli che continua a chiamare «topi di fogna») possa avvenire in tempi molto brevi. Per Saddam ci sono voluti otto mesi, per Osama bin Laden vari anni. Inoltre, le cose diverrebbero più complesse, se i fedeli di Gheddafi si trasformassero in insorti e continuassero la resistenza con le tattiche della guerriglia. Occorre un grande sforzo della comunità internazionale, per sostenere il nuovo governo libico. Sarebbe un vero disastro se il conflitto continuasse. Non ne andrebbe di mezzo solo la Libia, ma le intere prospettive della «primavera araba». Una stabilizzazione ragionevolmente democratica della Libia, avrebbe positive ripercussioni anche sull'Egitto e sulla Tunisia, dove le rivolte non hanno provocato un cambiamento di regime, ma solo la cacciata di due presidenti. Se ciò non avvenisse, sarebbe un peccato. Malgrado lo «sconquasso» fatto in Libia, scomparirebbero le residue speranze occidentali sulla democratizzazione dei popoli arabi.

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