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Abbiamo evitato il bot. Per ora

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First Greco, now Roman takedown. La caduta di Atene e Roma descritta con tono da poema epico dalla bibbia di Wall Street, il settimanale Barron's fotografa così la crisi dell'Eurozona e la speculazione sul debito pubblico del Belpaese. Ma le similitudini tra Atene e Roma si fermano giusto al titolo. Il resto è un'altra storia: i greci possono fallire e, tranne qualche banca tedesca o francese, l'Europa sopravvive benissimo, ma se fallisce l'Italia, sono guai seri per tutti. Siamo nella strana condizione del too big to bail, cioè troppo grandi per essere salvati e troppo grandi per crollare. È in virtù di questa legge dei mercati connessi che l'abbiamo passata liscia, anzi, come sintetizzato in riunione di redazione ieri sera: abbiamo evitato il Bot. Un calembour per dire che l'abbiamo vista brutta ma, attenzione, non è finita. E invece ho cominciato a vedere nei pressi del Palazzo dei sorrisini compiaciuti, quasi avessimo ribaltato le sorti di Caporetto. Non so in che mondo vivano i nostri politici, ma osservo con curiosità crescente i leghisti ammobiliare i loro ministeri padani, leggo che tal Scilipoti accusa gli speculatori di aver preso di mira nientemeno che il suo partito omeopatico, apprendo di piani bislacchi del Pdl per peggiorare una manovra depressiva, odo la voce del segretario del Pd raccontarci dall'Egitto di voler sostenere il governo nel salvataggio del nostro portafoglio e un minuto dopo chiederne le dimissioni. Da Pontida passando per le piramidi il risultato non cambia: l'improvvisazione regna sovrana. Tutto questo accade mentre lo spread tra Btp e Bund sfiora ancora quota 300 il che si traduce in miliardi di euro in più di interessi sul debito. Basta la manovra? Quali soluzioni abbiamo a portata di mano? Da dove viene la crisi? Questo dovrebbe essere il tenore del dibattito pubblico. Provo a dare qualche risposta. I fatti sono riassunti così: il nostro debito rimane sotto attacco, la Borsa ieri ha rifiatato, ma non siamo rientrati nell'età dell'oro, anzi la verità è che ne stiamo uscendo forse per sempre. Destinazione? L'era dell'incertezza. Titolo del Wall Street Journal online di ieri sera: Global Markets Facing a Perfect Storm? La tempesta perfetta. Dalle pagine del foglio che qualsiasi operatore del mercato osserva prima, durante e dopo il lavoro, apprendiamo che il barometro non segna affatto cielo sereno. Ne gireremo copia agli sprovveduti di piazza Montecitorio. Andiamo avanti. Proviamo a volare un po' più in alto di quanto faccia una classe dirigente che passa rasoterra per non farsi intercettare dai radar. Quali strumenti abbiamo a disposizione per capire che cosa sta succedendo? Soprattutto, da dove viene la speculazione? Qual è l'origine della sfiducia? Diamo un'occhiata alla libreria, vediamo se ci sono buone cartucce per sostenere due o tre idee. Ecco tre libri da leggere per capire quali sono i megatrend e cosa ci attende nel prossimo futuro: 1. The next 100 years (I prossimi cent'anni) di George Friedman; 2. Il caos prossimo venturo di Prem Shankar Jha; 3. Adam Smith a Pechino, di Giovanni Arrighi. Gli ultimi due titoli il lettore può acquistarli in edizione italiana (Neri Pozza e Feltrinelli) per il terzo attendiamo che qualche editore illuminato si svegli e offra ai lettori un saggio stupefacente sul futuro. Partiamo da qui, dal visionario Friedman. Il fondatore del think tank di geopolitica Stratfor è da leggere avidamente. Premette di «non avere la sfera di cristallo», ma una mano invisibile mescola il suo mazzo di carte e prevede nel 2020 una crisi territoriale in Cina, nel 2050 una guerra globale tra gli Stati Uniti e una coalizione formata da Turchia, Polonia e Giappone, la colonizzazione dello spazio nel 2080 e l'ascesa del Messico come potenza globale (e nuovo avversario degli americani) nel 2100. Mal di testa? Può darsi che Friedman lasci per strada qualche previsione, ma io lo leggo con attenzione. Quando si guardano questi studi di «forecasting», cioè di previsioni, non contano i dettagli, ma lo scenario complessivo. E allora ai nostri fini questo è un razzo nel futuro sul quale salire a bordo per vedere il panorama dall'alto e scoprire che lo sfondo permanente è la fine dell'era americana, la sua morte e rinascita, il disfarsi di un ordine che precipita nel disordine e poi ritrova armonia e supremazia. Altro tomo, altro autore, altro visionario. Prem Shankar Jha, un genio che ha studiato filosofia, politica ed economia a Oxford, alternando la scrittura e ricerca al public service per il governo indiano. Ci fiondiamo con un diretto al capitolo 14. Titolo apocalittico e disintegrato: «Verso l'oscurità». Qui, cari lettori, c'è tutto quello che serve: «...i sindacati, il welfare, lo stato-nazione e l'ordine internazionale westfaliano - istituzioni economiche e politiche che costituivano il fondamento della vita civile e per la cui costruzione erano stati necessari quattro secoli - sono stati fortemente indeboliti. Non solo non c'è nulla che ne abbia preso il posto, ma la distruzione continua irrazionalmente sotto la spinta delle "forze titaniche" di una nuova forma di capitalismo, di cui pochi hanno a tutt'oggi compreso il potere distruttivo e che nessuno sa come controllare». Gong! Brutto risveglio. Quel che avete appena letto vi ricorda qualcosa? Questa è esattamente la spiegazione del mondo contemporaneo così come lo narravano i titoli della cronaca di ieri. "Qui ci sbancano" (Il Tempo). "Tempesta sull'Italia" (Corriere della Sera). "Borse giù. Italia nel mirino" (La Stampa). "Attacco all'Italia, crollano i mercati" (Repubblica). "Italia bersaglio degli speculatori" (Il Sole 24Ore). "I guai (e i destini) paralleli di Europa e America alla prova del rischio default" (Il Foglio), "Divorano l'Italia" (Il Fatto). Sembra la sequenza in presa diretta di un film di Spielberg sulla guerra asimmetrica. Scoppi. Detriti. Nuvole di fumo. Trincee. Tutto al computer tra supervolontà umana e ordini automatici dettati da formule matematiche. Compro. Vendo. Stati interi. Destini di persone. Quel che resta delle nazioni sembra preda inerme di fronte ai giganti della finanza transnazionale. Fanno e disfano governi, attaccano titoli e monete, seminano capital gain e povertà. È il caos bellezza, e tu non puoi farci niente. Anche qui, lo sfondo è quello della costruzione e decostruzione, crisi e rilancio dell'impero americano. Tutto ruota intorno alla crisi di Washington. Obama è solo l'ultimo degli interpreti di una storia che è cominciata con la fine della Guerra Fredda. Siamo di fronte a oltre quindici anni di crescita forzata, pompata a colpi di debito pubblico. Fannie Mae e Freddie Mac. Più case per tutti. E carte di credito. Revolving come revolver. Prestiti. Subprime. Il giochino ha funzionato anche dopo l'11 Settembre 2001, anzi di più, finché i consumatori americani hanno cominciato a non pagare pagare più il mutuo della casa e il conto della carta di credito. Crac! Fallimenti. Chiusure. Disoccupazione. Crisi finanziaria. Recessione. Ripresa non più a «V» (caduta e risalita) ma in pieno «Jacuzzi stile» (crescita bassa, onde continue), un idromassaggio che non mette le ali all'economia degli Stati Uniti. Ancora l'America, centro di tutto. Ancora per poco. Perché se cominciate a sfogliare le pagine del terzo libro, Adam Smith a Pechino, avrete di fronte lo spostamento dell'asse del mondo verso Oriente. Cambia tutto. Sorpasso cinese. Marx va a Detroit, Deng Xiao Ping modella un capitalismo che capitalismo non è. Ma funziona. E detiene il debito americano. E anche un pezzo importante di quello italiano. Centro del mondo a Oriente. Qualcuno obietterà che la lettura di Arrighi è influenzata da una critica sociale vicina al marxismo. Be', con grande franchezza, Marx ci ha spiegato assai bene come funziona il capitalismo, il problema semmai erano i marxisti. E i fatti danno per ora ragione ad Arrighi e a quelli che vedono l'Impero Celeste prossimo dominatore del mondo. Sostituzione degli Stati Uniti. Nuova egemonia. Battaglia tra euro, dollaro e yen. Quel che sta accadendo sui mercati è figlio di questa rivoluzione in corso. E l'Europa. È il vaso di coccio tra i vasi di ferro. Non essendosi ancora dotata del numero di telefono unico che chiedeva il buon Henry Kissinger quando era segretario di Stato («Qual è il numero di telefono dell'Europa?»), il Vecchio Continente fa ben poco per impedire di essere una preda facile. Si salvano solo i tedeschi. Ma, guarda un po', a Berlino hanno già spostato l'asse dei loro interessi proprio a Est. E l'Italia? Straordinario Paese, se fosse un'azienda, dovremmo valutarla così: fantastica posizione, ottimi prodotti, design ineguagliabile, management da buttare. Per questo l'improvviso afflato bipartisan per uscire dal vortice speculativo va osservato con grande attenzione, scetticismo e sano cinismo. Come minimo il tutto si tradurrà in un micidiale aumento della pressione fiscale senza che siano apportati tagli significativi alla spesa pubblica e immaginata una via alla crescita e agli investimenti di cui il Paese ha bisogno come l'aria. E i mercati? Come spiega Marlowe citando il nostro beniamino, Gordon Gekko, «i soldi non dormono mai». Quello di ieri è stato solo un break. Oggi si ricomincia.

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