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La primavera folgora la via di Damasco

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Èl'unica autostrada della Siria, due corsie per senso di marcia dove sfrecciano camion carichi di frutta e motorini guidati in ciabatte. La periferia nord della capitale - quello stradone anticamera del viaggio che più avvicina via terra la Siria all'Europa - è una distesa di antenne paraboliche. Dai palazzoni rabberciati, dai balconi chiusi con inferriate arrugginite spiano come enormi occhi il resto della Terra. Non c'è Twitter, si controlla Youtube - dicono i giovani - nel Paese di Bashar al Assad. Ma entra tutto il mondo con la tv. E Facebook moltiplica i contatti e il tam tam dei ribelli. Allora anche la primavera siriana, l'ondata della protesta che parte dai ragazzi trova infiniti rivoli per ingrossarsi. È una fibrillazione che agita i posti più disparati dello stato con i confini tracciati dagli ex colonialisti usando una squadra. Emulsiona proteste disparate. Di quelli che guadagnano poco e che non si accontentano delle promesse governative di aumentare gli stipendi. Di quelli che ce l'hanno con la ricchissima famiglia al potere, la dinastia alauita (sciiti) mentre la maggioranza del popolo è sunnita. Delle giovani che hanno ricomiciato a indossare il velo e dei giovani che frequentano in massa le scuole coraniche per marcare la propria identità che non va svenduta agli americani e che dev'essere libertà anche di contrapporsi all'Occidente. Le antenne paraboliche segnano quello che in Siria non c'è. Il fatto che questo Paese è indietro mezzo secolo rispetto agli stati che manovrano il mondo. Al suk di Damasco, il sabato, gli adolescenti si portano da casa una bilancia - mica elettronica, ma di quelle meccaniche, con la lancetta - e in cambio di un soldino fanno pesare donne e uomini. Al Nord, nel sito archeologico contiguo al sepolcro di San Maroon, le rovine mostrate ai turisti stanno attaccate alle casupole dei nomadi, con i rivoli dell'acqua di scolo che fanno gorghi intorno ai reperti. La voglia di cambiare è un vento più impetuoso di quello che viene dal mare e piega verso il deserto i pini e i cedri piantati ogni primavera, nel giorno della Festa degli Alberi, lungo quell'autostrada che porta ad Aleppo. Accomuna le etnie, le fedi, gli strati sociali. La polizia ha dovuto fronteggiare i manifestanti ad Aleppo, la città del sapone fatto con l'olio che va a ruba tra i viaggiatori provenienti dall'Europa. Ha sparato e ammazzato a Latakia, il maggior porto siriano, sul Mediterraneo, il centro più modaiolo, l'unico dove la sera, nei bar sul lungomare, si può ordinare un alcolico. Ha ucciso a Daara, a sud, dove si sente più forte il fiato di Israele perché non sono lontane le alture del Golan, strappate a Damasco dal 1967, nella Guerra dei Sei Giorni. Ha sentito urlare la gente a Homs, il ricco e fertile cittadone al centro del Paese, dov'è nata la first lady Assam. Ha spinto la folla all'uscita dalla moschea degli Omaiadi, simbolo di Damasco, dove il sepolcro di Giovanni Battista sta vicino a quello del Saladino. Sorveglia i fedeli di Maaloula, l'enclave cristiano aramaica benedetta dalle statue di Cristo e di Maria sistemate sulle rupi più alte. Il vento di primavera rischia di spazzare via il «tappo» con il quale 40 anni fa il rais Hafiz al-Assad cominciò a tenere sottovuoto i cervelli dei siriani. Bashar, il figlio educato in Inghiterra, ha puntato con tutte le forze sulla modernizzazione del Paese, sul suo ruolo di ponte tra Oriente e Occidente. Ha sferrato l'offensiva del turismo - lo scorso settembre un Festival ha richiamato giornalisti e tour operator di tutto il mondo - per incunearsi nel mondo occidentale. Adesso la rivolta bloccherà i visitatori che si spingono fino al deserto di Palmyra, tra imponenti rovine e alberghi cinque stelle nelle oasi. Già qualcuno abbatte le gigantografie di Bashar. La faccia del potere che s'impone ogni dieci chilometri sull'autostrada per Aleppo non convince più.

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