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Il puritanesimo dei colonizzatori

Il puritanesimo dei colonizzatori

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Lasciamo pure da parte le teorie del complottismo che hanno fatto tanti guai nella storia di tutto il mondo e del nostro Paese in particolare. Tuttavia, non copriamoci gli occhi e cerchiamo, al contrario, di leggere gli avvenimenti, italiani e internazionali, in controluce facendo però sempre ricorso alla razionalità e al realismo politico. Cerchiamo, insomma, di capire che cosa si nasconde davvero dietro l'offensiva mediatica che giunge, ormai periodicamente, d'Oltremanica e che si ammanta di moralismo pruriginoso e di sufficiente e autocertificata superiorità etica. Perché non v'è dubbio che un'offensiva del genere sia ormai in atto da tempo. Questa analisi hanno cominciato a farla ieri Mario Sechi e Davide Giacalone, i quali hanno richiamato l'attenzione sul comportamento dei cosiddetti "poteri forti" del Vecchio Continente nei confronti del nostro paese. È storia vecchia, peraltro, quella del pervicace e inossidabile antiberlusconismo di marca britannica, espressione degli ambienti finanziari della City londinese. Negli ultimi tempi, alcuni importanti periodici inglesi - a cominciare dal Financial Times - hanno però alzato il tiro. E scoperto, così, le vere intenzioni dei loro proprietari o ispiratori. Alle tradizionali critiche, intrise di puritanesimo, nei confronti dei comportamenti privati di Berlusconi si sono aggiunti gli strali contro alcune direttrici di politica estera del governo italiano e si è assimilata l'immagine di Berlusconi a quelle di Hosni Mubarak, di Ben Ali, di Muammar Gheddafi. I compassati gentlemen della City, insomma, sotto sotto, si sono proposti, se non proprio di farne un dittatore mediorientale, di presentare Berlusconi come uno spregiudicato affarista disposto a mettere da parte, per gli interessi propri e del suo paese, ogni scrupolo di ordine morale e a civettare senza ritegno con tanti quotidiani calpestatori dei diritti umani. Che è davvero una bella pretesa moralistica da parte di chi, un tempo, si trovò impelagato, per affermare la propria supremazia o influenza sulla Cina, in una guerra passata alla storia come "guerra dell'oppio". La verità è che questi ambienti finanziari in tight e bombetta sono fortemente irritati e preoccupati non tanto delle sorti della democrazia in Medio Oriente o della correttezza dei comportamenti democratici dei leader dell'area e neppure (anzi, meno che mai) della moralità delle relazioni politiche con essi quanto piuttosto del fatto che il governo italiano sia stato in grado di stabilire una partnership strategica soprattutto in campo energetico con alcuni paesi dell'area mediterranea. E che, così facendo, abbia determinato in queste zone importanti conseguenze di natura geopolitica, a cominciare da quella dell'affermarsi di una leadership, anche diplomatica, dell'Italia a danno di quella tradizionale di altri paesi europei, prima fra tutti la Gran Bretagna Dietro l'antiberlusconismo della nebbiosa City londinese e dei suoi rancorosi portavoce ci sono il richiamo della foresta dei concreti interessi finanziari e il rimpianto per una perdita di ruolo politico e strategico. Ma c'è anche qualcosa di più. C'è una antica pulsione anti-italiana, che fa da contrappeso a una tradizione di sincera amicizia e stima inglesi per il nostro paese. Vale la pena di ricordare, per inciso, che la Gran Bretagna - la quale, pure, dette asilo a molti patrioti italiani - ai tempi del Risorgimento ebbe un atteggiamento sostanzialmente antipiemontese e antiunitario perché preoccupata delle conseguenze che l'unificazione italiana avrebbe potuto determinare sull'assetto creato in Europa e nella penisola dal Congresso di Vienna. Per molti esponenti dell'establishment politico e culturale inglese la simpatia per l'Italia era soltanto, per dir così, estetica e letteraria. Tutta quella storiografia e pubblicistica inglese à la page, radical-chic e progressista, riflette il pregiudizio anti-italiano: l'Italia è il Bel Paese da ammirare e frequentare, ma è anche un paese politicamente immaturo, refrattario alla democrazia liberale. Un paese che sconta tare ereditarie e difetti ancestrali. E quindi da mettere e tenere sotto tutela e sotto osservazione. È questo il senso riposto di opere, fortunate ma storiograficamente risibili, di autori, appartenenti a quel filone che va da Denis Mack Smith a Christopher Duggan e che mette in burletta, con un sottofondo di fastidioso moralismo, l'intera storia del nostro paese. Ed è, ancora, il senso degli articoli antiberlusconiani scritti a Londra e ispirati dagli ambienti finanziari della City, nonché delle corrispondenze da Roma di giornalisti e inviati abituati a frequentare i soviet mediatici e salottieri del nostro paese. Insomma, dietro l'offensiva antiberlusconiana del Financial Times e di altri giornali inglesi ci sono, probabilmente, motivazioni profonde di natura concreta. E con esse ci sono le speranze che, da un eventuale terremoto geopolitico nel Mediterraneo e nell'area mediorientale, discenda un ridimensionamento del ruolo politico, strategico ed economico dell'Italia. A questo fine la caduta, comunque provocata, di Berlusconi è essenziale, perché l'identificazione, giusta o sbagliata che sia, del Cavaliere con l'Italia e con la politica estera italiana, consentirebbe, all'indomani della sua uscita di scena, di ripensare a una Italia da mettere sotto tutela. Della City e della finanza internazionale.

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